Fare impresa è un lavoro creativo.
I comunicatori sono professionisti costantemente a contatto con le imprese.
Piccole, medie, grandi, grandissime, gruppi e così via. E i comunicatori
sono i creativi per eccellenza, qualunque specializzazione abbiano, vengono
sempre annoverati tra quelli che dovrebbero avere le più innovative e
originali idee che permettano ad un brand di raggiungere mete di profitto sempre
un “passo più in là”.
Ed in effetti è così e, senza negarcelo, si tratta di una competenza
che è l’indice che misura la professionalità di un esperto
di comunicazione. Se lavori per una grande marca che, grazie alla tua operazione
di comunicazione, arriva a raggiungere obiettivi di marketing di buon livello,
allora vuol dire che sei un bravo comunicatore. E tutti noi, comunicatori, abbiamo
lasciato qualche minuto di sogno nei primi anni di professione, leggendo le
righe di Ogilvy che parla di Rolls Royce o di altri come lui che raccontavano
i risultati raggiunti da questa o quella campagna.
Ma questi erano quegli anni, quelli di più di qualche decennio fa, in
cui il mercato riconosceva la professione del comunicatore come qualcosa fondata
su un mix inedito tra capacità di trovare idee originali e rarità
dovuta ad una tipologia di professione ancora poco diffusa. Questo comportava
una fatica non trascurabile nel cercare qualcuno realmente capace che, una volta
trovato, non poteva essere trattato “al ribasso” perché da
lì a poco se ne sarebbe trovato un altro, come accade oggi. Erano
professionisti da piedistallo.
Una consolazione per giustificare che oggi non è più così?
Non scherziamo, parliamoci chiaro: oggi la comunicazione è una delle
professioni più di tendenza e, forse conseguentemente, più improvvisabili.
Per questo, se si hanno realmente le carte in tavola, vale la pena non essere
modesti e affermare che «io la comunicazione la so fare», posizionarsi
e confrontarsi con chi è pari di livello.
E che c’entra il collegamento con le imprese? Ecco, parlavamo di professione
improvvisabile e uno degli ambiti in cui questa autentica sciocchezza viene
commessa è proprio quello degli imprenditori. Che siano stati gli anni
‘70, ‘80 o ieri, tutti abbiamo incontrato quell’imprenditore
che ha tentato di convincerci che nessuno meglio di lui sa cosa sia più
adatto per comunicare la propria impresa. E anche qui viene da ricordare quella
rima che lo stesso Ogilvy cita nel suo “Confessioni di un pubblicitario”
circa quell’imprenditore che vuole talmente essere testimonial del suo
messaggio tanto da volerci mettere la sua faccia. Oggi, in maniera più
comica, verrebbe da citare Maurizio Crozza nella sua parodia del Presidente
di Banca Mediolanum, ma evitiamo accostamenti azzardati. Ci siamo capiti.
Oggi impresa si chiama innovazione, tecnologia, startup e tutto quello che di
correlato viene da pensare. Peggio ancora! Una volta si era bravi a fare qualcosa
e poi, a successo avviato, si pretendeva di essere bravi anche a comunicare,
oggi si assiste al crescente fenomeno del «ho l’idea che secondo
me è perfetta per tutti!» e da lì a convincersi a costituirne
un’impresa passa davvero poco. La capacità di costruire una comunicazione
qui è addirittura ritenuta innata, tanto parliamo di “nativi digitali”.
Ma che caratteristiche deve avere un’idea per poter diventare
un’impresa? Un creativo ce la fa a far diventare lavoro un’idea
che ha avuto? Sembrerebbe quasi scontato rispondere di sì, del resto
se ce la faceva a procurare successo a questa o a quella marca, perché
non alla sua?
Invece non è così: progettare una campagna di successo per un
cliente non è come fare di un’idea un’impresa, semplicemente
perché nel primo caso si lavora da creativi e bisogna essere bravi a
farlo, nel secondo si lavora da imprenditori.
E lo sappiamo tutti: un conto è mettersi in proprio, un conto strutturare
è una realtà, seppur piccola, che procuri profitto a noi, a chi
lavora per noi, ad una struttura che ci rappresenta, ad una tecnologia che rende
competitivi noi e chi paghiamo per lavorare con noi.
In questo caso a pagare di piùsono le nuove leve, quelle che hanno 25
anni e che, avuta un’idea – oggi tutti ne hanno una come se fosse
il profilo di un social network – pensano che possa diventare facilmente
l’occasione per entrare nel mercato. La crisi è durata davvero
poco, in realtà abbiamo dato questo nome ad un mercato nuovo che tanti
non hanno capito o intuito. Se c’è una crisi, quella è relativa
alla difficoltà celebrale di qualcuno di accettare un tavolo con le carte
diverse, dove il gioco ha nuove regole e dove le pedine vanno cambiate con quelle
dalla forma più adatta. Eppure non passa giorno che non senti imprese
affermare che «aspettiamo che passi questo momento», giustificativo
perfetto ormai per nascondere un insoluto, una mancanza di coraggio a rinnovarsi,
eccetera.
Da qui la necessità di far capire necessariamente due aspetti:
fare impresa e avere un’idea. Sono due ingredienti che da soli posso esistere
ma che funzionano solo se connessi, specialmente oggi in cui il mercato aspetta
cenni nuovi, ma non idee e basta. Piuttosto qualche idea che, nuova, dimostri
di funzionare.
E quanto conta la comunicazione? Tanto, davvero tanto, ma non la comunicazione
di sempre, quella che ti chiede di progettare identity, advertising, e tutto
il resto in maniera perfetta. Piuttosto tutte quelle operazioni che siamo abituati
ad affrontare in un brief, in cui si parla di cosa, a chi, perché, perché
più di un’altra, fino ad arrivare a dire anche – e capita
spesso – che non vale la pena, che non ha le carte in regola. Bisogna
essere coerenti e avere la capacità di fermarsi, con la sicurezza che
domani la propria competenza farà in modo di procurare un’idea
migliore di quella di oggi.
Quindi? Comunicare è un lavoro da professionisti e
farsi avere un’idea non è l’atto folle di un pensiero incontrollato,
per cui va valutato bene quali sono i punti secondo i quali quell’idea
può funzionare o no. E chi glielo dice a tutti coloro che hanno voglia
di fare senza sapere se serve?
Facciamo una startup per dire a tutti come si fa?
Stefano Gangli ha appena pubblicato il libro “Fare impresa è
un lavoro creativo – 8 mosse per capire se hai l’idea giusta”.
Il libro suggerisce i punti da tenere presenti per tradurre l’idea di
un creativo in impresa. Uno scritto suggerito dalla difficoltà generale
dei “creativi” nel creare impresa da una propria idea in un mercato
nuovo come quello che viviamo.
42 anni, vive e lavora a Roma. Direttore creativo dell’agenzia di comunicazione
SignDesign, dal 2000 si occupa di creatività e strategie
di comunicazione per aziende, enti e aggregatori di imprese con una particolare
specializzazione per i brand made in Italy. Per oltre un decennio è stato
docente presso lo IED di Roma, è direttore e fondatore del progetto editoriale
Livingroome, media for design. Autore di numerosi articoli e contributi per
testate e blog.
È membro dell’ADCI - Art Directors Club Italiano.









