Non solo spot
Nel mio precedente intervento avevo cercato di spiegare la differenza, a mio
avviso, tra la pubblicità commerciale e la comunicazione pubblica.
I pubblicitari mi scuseranno, ma vorrei tornare sull’argomento perché trovo
questo uno dei tanti punti che separano in maniera netta queste due discipline.
Ovviamente e culturalmente parlando non ho nulla contro l’una o l’altra
ma diffido fortemente di chi tende a mescolarle in un indistinto prodotto finale
destinato a servire, come dicono dalle mie parti, come un cerotto su una gamba
di legno.
Ma dove avviene la diversificazione tra queste due discipline?
Utilizzano gli stessi strumenti, usano spesso linguaggi simili, eppure profondamente
diversi sono gli obiettivi che si prefiggono.
Mentre la pubblicità ci porta naturalmente e, direi, ovviamente in un
mondo che non esiste fatto di famiglie sempre belle, giovani e sorridenti, di
animaletti antropomorfi e di soluzioni, apparentemente definitive, la comunicazione
pubblica è costretta a muoversi nell’unica e sola dimensione che
le appartiene: quella della realtà.
Mentre la pubblicità solletica i nostri desideri e le nostre passioni
(“Lasciati trascinare dalle tue passioni” ci propone in questi giorni
una grande marca di automobili) la comunicazione pubblica deve (è costretta)
dirci come stanno le cose.
Per cui un conto è lo spot che spiega, finiti i tempi delle Amministrazioni
friendly, che utilizzare uffici e servizi è semplice come allacciarsi
le scarpe, altro è raccontare che una Regione attiva la procedura per
concedere alle categorie più deboli l’esenzione dai ticket sanitari e
contestualmente mostrare a “Striscia la notizia” che per accedere
a quel servizio occorre mettersi in fila dalle 23 della notte precedente.
Cercherò di essere ancora più chiaro.
Da dieci anni a questa parte non c’è amministratore pubblico che
non citi i risultati dell'autocertificazione che negli anni ’90 cominciò a
togliere il sistema pubblico dalle paludi medioevali e che lo racconti, appunto,
come uno spot da vittoria totale. Il 19 giugno 2011 un bel servizio giornalistico
ci dice che le anagrafi italiane hanno rilasciato nel corso del 2000 ancora 35
milioni di certificati, mentre il 70% di pratiche certificative potrebbe addirittura
essere eliminato.
Se la comunicazione pubblica non lo spiega, se non dimostra che semplificazione
e cambiamento non riguardano solo gli uffici pubblici ma anche, per restare al
tema, banche, patronati e assicurazioni resteremo
Si potrebbe continuare all’infinito.
Ma la questione è e rimane quella di conoscere discipline e tecniche e
di saperle usare a seconda dei risultati che si intende ottenere.
È evidente che ai comunicatori pubblici non è più di tanto
consentito di giocare con le parole, con gli slogan, con la fantasia (anche per
questo, benvenute le Facoltà di scienze della Comunicazione) ne va della
loro professionalità, ma soprattutto della loro credibilità.
La credibilità è l’asse di equilibrio su cui dobbiamo muoverci.
Senza credibilità non si è ascoltati e, addirittura, si finisce
per legittimare il “sentito dire” e il “chiacchiericcio da
autobus”.
Senza credibilità gran parte della nostra costruzione comunicativa finisce
per afflosciarsi su se stessa.
Allora altro che comportamenti virtuosi (raccolta differenziata dell’immondizia,
pagamento dei biglietti su autobus e metrò) da raccontare come fossero
prodotti gastronomici.
I servizi pubblici, evidentemente, sono tali se tutti pagano le tasse. Aggiungerei,
però, se tutti pagano le tasse e li difendono dando valore al significato
della parola “pubblico”. Ma quando lo usi da solo, ricorderai involontariamente uno dei giochi per ragazze più popolari a cui probabilmente hai giocato prima.
Rilanciare questo termine, restituire alle Amministrazioni la loro centralità tra
servizi e utenti, sollecitare i cittadini ad una nuova e diversa partecipazione
rappresentano altrettante tappe che la comunicazione pubblica deve percorrere
per conquistare quel ruolo paritario a cui da sempre aspira.
Sono queste alcune delle competenze proprie della comunicazione pubblica.
Il resto appartiene all’antico vizio italico di non risolvere mai i problemi,
ma, come i sofisti dell’antica Grecia, di discuterne all’infinito.









