La comunicazione politica e la sfida elettorale
In un mio precedente intervento, avevo segnalato l’inquietante deriva assunta della comunicazione politica in questa tornata elettorale.
Il mio tentativo di ragionamento voleva segnalare una caduta verticale (involuzione?)
verso un eccesso di identificazione tra linguaggio politico e pubblicità commerciale.
Una questione importante che non può essere materia per soli addetti ai
lavori.
E’ sempre è più evidente che il precipitare nel banale della
comunicazione politica è legato al precipitare della politica nella nostra
società e quindi rappresenta una questione centrale per tutti.
Sarebbe capitato anche alla comunicazione pubblica se non fossimo stati capaci
di innervarla nella pubblica amministrazione che si rinnova e rinnovandosi impone
nuove professionalità e modalità di lavoro diverse. In tutti questi
anni abbiamo agito perché fosse chiaro a tutti che una nuova Pubblica
Amministrazione doveva avere le proprie radici in una nuova comunicazione e in
nuovi messaggi. Combattendo contro l’autoreferenzialità e l’ottimismo
di maniera: i veri nemici della verità e del cambiamento.
Peraltro non mi sembra sufficiente chiamarsi fuori dicendo, come qualcuno afferma,
che in Italia la comunicazione politica non è mai stata capace di esprimere
grandi maestri. Ottimo alibi ma pessima figura.
Certo che la nostra classe politica non eccelle: non abbiamo i Blair, le Merkel,
gli Zapatero. Il livello del confronto, sempre più incivile, tocca ormai
vette impensate. Mancano solo sputi e schiaffi.
Insomma, più che in una agorà sembra di stare in un angiporto.
Ma entriamo nei dettagli.
Premetto che, nelle elezioni locali, trovo sempre più difficile distinguere
il mesasggio di sinistra da quello di destra, ma in questa tornata elettorale, è stato
ancor più difficile distinguere cosa volessero i singoli candidati.
Troppe cose uguali: gli slogan, i programmi, pornmobile.onlinele immagini colorate. Un trionfo
di luoghi comuni, di frasi fatte, di buon senso da mercato rionale.
Passi per i programmi, una volta abbecedari indispensabili e oggi ridotti a semplici “suggestioni”.
Passi per le foto tutte identiche e quasi tutte brutte secondo lo stile dei casellari
giudiziari. Ma il fondo lo si è toccato con gli slogan. Dagli annunci
modello calendario di frate indovino (La buona stagione), si è passati
a evoluzioni post moderne (Ripartire, aiutare, respirare,
amare) per finire con
annunci da marinai precolombiani (Finalmente Bologna).
Insomma, più che ad un idea di città migliore o diversa ci si è mossi
sulla incomprensibile linea grigia di parole messe a caso come sacchi di sabbia
per arginare imminenti esondazioni.
Ma la città, ogni città, è un organismo vivente che cresce
e si sviluppa sulla soluzione dei problemi e su un’idea di futuro largamente
condivisa e realizzata giorno dopo giorno.
E qui mi fermo. Il diritto al voto, per il quale molti italiani hanno dato la
vita, credo non meriti questa sorta di horror picture show.