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Ancora sul giustificato motivo oggettivo di licenziare...

07 Lug 2020

In termini strettamente giuridici, per giustificato motivo oggettivo di licenziamento si definisce la motivazione dell’atto di risoluzione del rapporto di lavoro dipendente per ragioni non riguardanti comportamenti della persona (e quindi strettamente “soggettivi”), bensì il recesso legato a ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento dell’azienda.

Tali scelte imprenditoriali possono essere di carattere economico o tecnico-produttive. Le ipotesi più frequenti di licenziamento per giustificato motivo oggettivo sono costituite dalla cessazione dell’attività produttiva e dalla soppressione del posto o del reparto cui è addetto il lavoratore. Tuttavia il licenziamento può rendersi necessario per motivi tecnologici (ad esempio: nuovi macchinari che necessitano di un minor numero di addetti) o per ragioni imprenditoriali diverse di carattere stabile, fondante anche solo sulla decisione del datore di lavoro di distribuire diversamente all’interno dell’azienda determinate mansioni (Cass. 7 gennaio 2007 n. 28), o di affidare le stesse a soggetti esterni (Cass. 5 settembre 2008 n. 22535).

Nel caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo il giudice, una volta dimostrate dal datore di lavoro le circostanze che ne integrano la fattispecie, non può sindacare l'opportunità delle scelte organizzative effettuate dall'imprenditore che sono "a monte" dell'intimazione del licenziamento stesso (es. la scelta di meccanizzare la contabilità che ha condotto al licenziamento di due "contabili"). Esse competono solo al datore di lavoro ( in quanto rientrano nella libertà di iniziativa economica privata: art. 41 Cost.) e non sono sindacabili nella loro congruità, opportunità e convenienza (Cass. 27 ottobre 2009 n. 22648).

Tuttavia, a supporto di un giustificato motivo oggettivo, la giurisprudenza e la dottrina impongono all’impresa recedentepornmobile.online l’onere della prova liberatoria dell’impossibilità di un’utile (e perciò senza sacrificio apprezzabile) reimpiegabilità del lavoratore nel comparto aziendale in mansioni diverse da quelle precedentemente rivestite, in tal modo conferendo all’atto espulsivo la natura di extrema ratio: la legittimità del licenziamento presuppone, quindi, la dimostrazione, da parte del datore di lavoro delle ragioni ostative ad un impiego del medesimo lavoratore con mansioni almeno equivalenti in luoghi diversi (c.d. obbligo di repêchage).

È parimenti noto che, ad avviso dei citati indirizzi, la menzionata prova dell’impossibilità di repêchage del dipendente, concernendo un fatto negativo, possa essere assolta mediante l’allegazione dei corrispondenti fatti positivi contrari (Cass., sez. lav., 16 maggio 2003 n. 7717, idd. 13 novembre 2001 n. 14093, 25 agosto 2000 n. 12221).

Da ultimo, con la sentenza del 28 marzo 2011 n. 7046, che qui si commenta, i giudici di legittimità sono tornati a pronunciarsi sulle giustificazioni necessarie a conferire legittimità al licenziamento, precisando che quando il giustificato motivo oggettivo si identifica nella generica esigenza di riduzione di personale omogeneo e fungibile non sono utilizzabili né il normale criterio della posizione lavorativa da sopprimere in quanto non più necessaria né il criterio della impossibilità di repêchage (in quanto tutte le posizioni lavorative sono equivalenti e tutti i lavoratori sono potenzialmente licenziabili)”.

Non è, tuttavia, vero che la scelta del dipendente (o dei dipendenti) da licenziare sia per il datore di lavoro totalmente libera: essa, infatti, risulta, limitata, oltre che dal divieto di atti discriminatori, dalle regole di correttezza cui deve essere informato, ex artt. 1175 e 1375 c.c., ogni comportamento delle parti del rapporto obbligatorio e, quindi anche il recesso di una di esse (Cass. 21.12.01 n. 16144).

Per l’individuazione in concreto dei criteri obiettivi che consentono di soddisfare alle suddette regole di correttezza e buona fede, la Corte di Cassazione ha ritenuto che in via analogica possa farsi riferimento ai criteri previsti dall’articolo 5 della legge n. 223 del 1991 che, nella scelta dei dipendenti da coinvolgere nel licenziamento collettivo, pone rilevanza ai carichi di famiglia e all’anzianità degli stessi, senza però trascurare, continua la sentenza, eventuali esigenze tecniche, produttive e organizzative dell’azienda, soprattutto se legale alle singole professionalità e mansioni.

I giudici della Suprema Corte, hanno quindi riconosciuto le ragioni della ricorrente, sostenendo che, quando il giustificato motivo oggettivo riguarda la riduzione di personale omogeneo e fungibile, non si possono applicare, a giustificazione del licenziamento, i consueti criteri di valutazione, cioè l’utilità della posizione lavorativa (sopprimibile perché non necessaria) e la possibilità di repêchage (riallocazione in altre funzioni aziendali).

I Giudici hanno infatti sottolineato che, malgrado l’impossibilità di repêchage (visto che tutti i lavoratori svolgono la stessa attività), la decisione non potrà ignorare i carichi di famiglia e le anzianità. Ciò nonostante, il non rispetto di tali obblighi non rappresenta una violazione del principio di non discriminazione, a meno che il lavoratore dimostri il contrario.

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