Il tempo del fare
Senza ritornare sulle problematiche che animeranno l’Assemblea nazionale dei comunicatori pubblici (vedi intervento del 2 marzo scorso) convocata a Roma per il prossimo 18 aprile, mi sembra opportuna una riflessione su quella che ritengo una questione fondamentale per la nostra categoria e non solo.
Vale a dire il rapporto tra pubblica amministrazione e comunicazione pubblica.
Molti sono i motivi che mi spingono a farlo ma in particolare il bisogno di allontanare quell’atmosfera fumosa che da sempre aleggia attorno alla nostra disciplina.
Una disciplina che tende a farsi sentire quando attorno a lei prevale il tono della ricerca e delle realizzazioni (vedi URP e Legge 150 del 2000) e che finisce quasi per diventare muta quando, al contrario, dovrebbe richiamare tutti alla coerenza tra parole e fatti.
Questa sorta di pendolo che fa apparire e sparire valori, obiettivi e significato della comunicazione per cui si passa indifferentemente dalla creazione degli Urp agli emoticon, dal “pronto cosa posso fare per lei?” alle più sofisticate e per certi versi fantascientifiche tecniche di ascolto è, a mio avviso, uno dei maggiori ostacoli a quell’equilibrio amministrazioni-cittadini che la comunicazione pubblica deve o dovrebbe perseguire prima e garantire poi.
Altrimenti è sempre più velleitario pretendere di avere e svolgere un ruolo fondamentale nel grande lunapark dell’innovazione.
Ovviamente un simile ruolo non viene mai negato a parole ma viene costantemente ostacolato nei fatti.
Fra circa un mese e mezzo milioni di italiani saranno chiamati al voto per eleggere sindaci e Consigli e non c’è città interessata dove non sia in corso un dibattito assolutamente accademico sulla comunicazione dei diversi candidati.
Un dibattito necessariamente accademico perché, in fondo, diffusa è la consapevolezza che le elezioni si vincono altrove e con altri mezzi.
Per cui, fatto il doveroso, direi dovuto, riconoscimento alla funzione fondamentale del comunicare, si passa poi ad altro e ad ogni campagna i manifesti sono sempre più brutti, gli slogan sempre più incomprensibili e le facce sempre più uguali.
Mancano solo gli scoiattoli afflitti da eccesso di meteorismo ma tutti gli echi della più banale pubblicità commerciale risuonano e rimbalzano in sale convegni e muri cittadini.
D’altra parte perché fingere stupore quando da anni si tenta di relegare la comunicazione pubblica tra faccine più o meno sorridenti e numeri telefonici più o meno attivi?
Il problema dunque non solo è un altro ma è chiaramente evidente.
Se la comunicazione pubblica vuole affermarsi e crescere deve rilanciare la propria “diversità”. Non solo per diventare davvero disciplina nuova e autonoma ma per ribadire il suo insostituibile ruolo in ogni processo di cambiamento.
Per questo non ci aiutano coloro che scrivono manuali e volumi dove, in controluce, si legge sempre la parola Stato. Né coloro che difendono strenuamente il proprio piccolo e vetusto orticello sperando così di continuare ad illudersi e a illudere.
Né tantomeno coloro che cercano di dare linfa vitale a nuovi spettri professionali. Non sarà moltiplicando all’infinito la funzione del comunicatore che risolveremo i nostri attuali problemi.
Anzi, da questa torre di Babele di definizioni e di competenze, dobbiamo aspettarci poco di buono. Se i problemi dei neolaureati in Scienze della comunicazione si mescolano con quelli di una realtà pubblica che da tempo ha scelto la strada dell’apparire, temo che produrremo una miscela mefitica.
La comunicazione, così come le nuove tecnologie e la formazione, è la punta avanzata di quell’esercito degli innovatori costantemente schiacciato tra un’urgenza e l’altra, tra una campagna elettorale e un’altra, in un sistema pubblico a cui, al contrario, sono richieste competenza, professionalità e rapidità.
I comunicatori pubblici non vogliono sostituirsi a nessuno perché non vogliono essere sostituiti da qualcuno, proprio per questo debbono smettere di “fotografare” una realtà non più soddisfacente e debbono cominciare ad agire con fermezza e coerenza.
Il tempo del dire è ormai esaurito. Facciamo in modo che il tempo del fare non trascorra invano.