Europa e comunicazione
Esistono parole il cui uso eccessivo rischia di farne perdere il significato
originale.
Così, ad esempio, la parola “provinciale” ha finito per definire
un modo di essere e una cultura intrisa di miopismo e angusti orizzonti, mentre
in origine indicava una serie di valori e di certezze.
Sarebbe un tragico errore se adesso analogo destino toccasse alla parola Europa.
Una parola che qualcuno cerca di ridurre ad una identità astratta il cui compito fondamentale è e rimane quello di vietare o imporre regole anziché agire per dare forma e sostanza unitaria ad economie e culture diverse.
Se da questa visione generale passiamo ad un aspetto specifico, quello della comunicazione, la cosa diventa ancor più evidente.
Si badi bene, la questione non è comunicare l’Europa ma comunicare in Europa.
I comunicatori pubblici debbono evitare di farsi rinchiudere nei cortili sempre più angusti delle proprie Amministrazioni o in un estenuante gioco dell’oca che li rimanda continuamente alla casella di partenza.
Prima si afferma la necessità di studi specifici, poi l’esigenza di una legge, poi l’opportunità di un ordine o un sindacato ad hoc (entrambi non previsti dall’attuale legislazione europea), poi la mancanza di risorse economiche, poi la difficoltà a realizzare piante organiche, poi la presunta egemonia di una creatività che non deve essere soffocata da nessuna professionalità specifica.
Su questo perenne ottovolante, molti di noi hanno trascorso l’intera vita lavorativa aspettando il governo giusto, l’amministrazione sensibile, il sindacato coerente e via dicendo. Ma a questo schema, per dirla con le parole di una vecchia canzone, “è mancato sempre un centesimo per fare una lira”.
L’Europa del 2011 può rappresentare una possibile nuova alleata. Non solo perché gruppi di lavoro e commissioni sono impegnati a costruire il futuro e non a difendere il passato ma soprattutto perché la comunicazione che si pratica non è stata ridotta a materia per dibattiti che non portano da nessuna parte ma si è fatta modalità permanente d’azione.
Il tempo in cui la comunicazione pubblica era riservata a pochi intimi è definitivamente finito. Oggi questa disciplina è diventata importante grazie all’impegnodp bhabhi gangbang porn di chi la pratica, ad una diversa sensibilità nei rapporti tra Istituzioni e cittadini, alla crescita delle facoltà universitarie che ne hanno fatto un elemento irrinunciabile di ogni processo di cambiamento.
Viviamo una fase storica in cui la comunicazione pubblica, almeno nel nostro Paese, rischia di essere riportata, con le buone o le cattive, in quella zona d’ombra dove risultano dispersi molti progetti di riforma.
Colpita dal fuoco amico di chi sente vacillare antiche certezze, oggetto di riflessioni spesso superficiali e strumentali, la comunicazione pubblica assomiglia sempre di più ad una barca che naviga, con poche vele e senza timone, in un mare sconosciuto.
Se persino la responsabile dell’intero sistema di Istruzione definisce le Facoltà di Scienze della Comunicazione “amenità”, vuol dire che si sta davvero richiudendo quel recinto che pensavamo definitivamente abbattuto.
Spetta quindi anche a noi parlare sempre più con la voce dell’Europa. Sapendo che quella non sarà la mitica terra del vello d’oro ma che senza un simile approccio resteremo impigliati nella rete dei “casi di eccellenza” o peggio, nei surrogati della comunicazione pubblica che qualcuno vorrebbe propinarci in nome di un modernismo che non ci convince.
Guardare all’Europa in questo modo non significa aggrapparsi a qualsiasi cosa come disperati naufraghi. Significa avviare nuove forme di collaborazione capaci di affermare una comune idea di comunicazione pubblica e contemporaneamente di definire nuove competenze e nuove professionalità.
Anche per questi motivi i comunicatori pubblici si impegneranno nell’anno appena iniziato per definire una visione più ampia e un riferimento più vasto di quello spazio in cui ciascuno di noi viene costretto ad agire.









