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(Adnkronos) - Clan che agiscono come milizie armate nella Striscia di Gaza, saccheggiano i magazzini per sequestrare cibo con la forza e sparano per proteggersi da Hamas. Sono i clan emergenti nell'enclave palestinese, che si stanno affermando sfidando l'autorità di Hamas, secondo alti funzionari delle Idf citati dal sito di notizie israeliano Walla. Alcune fonti hanno riferito al sito saudita 'Al Hadath' che Hamas ha perso il controllo della sicurezza sulla Striscia di Gaza, aggiungendo che ladri e bande armate sequestrano aiuti, saccheggiano case e terrorizzano i residenti. In realtà l'influenza di questi clan è precedente all'attuale conflitto ed è radicata in reti di contrabbando che trafficano armi, droga, sigarette e prodotti elettronici provenienti da Egitto e Israele. Nel corso degli anni, Hamas ha raggiunto accordi con alcuni di questi clan, arrivando talvolta a collaborare con loro. Il più influente sembra essere il clan Abu Shabab, guidato da Yasser Abu Shabab della famiglia Tarabin. Dopo essere stato espulso da Rafah, il clan ha operato con aggressività nel nord e nel sud della Striscia di Gaza. Fonti palestinesi indicano che il gruppo Abu Shabab si occupa sia di proteggere i convogli di aiuti umanitari, sia di saccheggiarli. Hamas ha accusato il clan di collaborare con Israele. Un altro clan influente è quello di Dughmush, noto anche come Dajmash, proveniente da Tel al-Hawa e al-Sabra a Gaza City. Questo clan era già coinvolto nel rapimento del caporale israeliano Gilad Shalit ed è stato protagonista di violenti scontri con Hamas. Il suo leader è stato ucciso lo scorso anno, accusato di legami con Israele. Fonti della sicurezza citate dal Jerusalem Post affermano che la maggior parte di questi clan è motivata dal desiderio di potere e ricchezza piuttosto che dall'ideologia. In questo momento stanno sfruttando la posizione indebolita di Hamas per espandere la propria influenza. Tra gli altri c'è il clan Abu Tir, che operava a Khan Yunis ed era specializzato nel contrabbando dal Sinai. Quindi il clan Al Kashk, con sede a Gaza City, strettamente legato ai centri di autorità locali. Poi il clan Abu Risha, attivo a Rafah e legato a gruppi salafiti, il clan Shawish, relativamente piccolo, ma attivo a Gaza. Infine il clan Baraka, affiliato ad al-Fatah e operante principalmente a Gaza City.
(Adnkronos) - Un viaggio dell’anima per conoscere i luoghi che, negli Stati Uniti, hanno fatto la storia dei diritti civili. Per non dimenticare quel capitolo buio - mai abbastanza raccontato nei testi delle scuole europee - che è stato la schiavitù e la segregazione degli afro-americani e la lunga lotta per il riscatto e la conquista di pari opportunità. Un tema tuttora scomodo e che ancora oggi segna i volti di tanti cittadini di colore che hanno un posto nella società ma che portano dentro la memoria dei loro avi e di chi ha permesso di conquistarlo. Per ripercorrerlo, e promuovere un turismo della consapevolezza, è nato il Civil Rights trail, un cammino trasversale a diversi Stati americani ma che ha il suo cuore in Alabama, nel ‘profondo’ Sud, lì dove negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso si sono svolti avvenimenti destinati a cambiare il corso della storia. E che proprio in questo 2025 celebrano importanti anniversari. Esattamente 70 anni fa, il 1° dicembre 1955, Rosa Parks, una sarta impiegata nell’azienda tessile di Montgomery, l’attuale capitale dell’Alabama, si rifiutò di cedere il posto in autobus a un bianco, come dettava la ‘prassi’. Un gesto che le valse l’arresto ma che avrebbe portato, il 13 novembre 1956, alla storica sentenza della Corte Suprema che dichiarò incostituzionale la segregazione razziale nei mezzi pubblici, dopo aver scatenato un altro evento simbolo: il boicottaggio degli autobus di Montgomery che durò 381 giorni. A guidarlo un pastore di colore della chiesa battista arrivato da Atlanta, la capitale della vicina Georgia, altro luogo di ‘pellegrinaggio’ lungo il cammino dei diritti civili: Martin Luther King jr, diventato poi un leader internazionalmente conosciuto nella difesa degli afro-americani. Fu sempre lui, dieci anni dopo, nel marzo 1965, a guidare i manifestanti partiti dalla cittadina di Selma che pacificamente chiedevano il diritto di voto. Ci vollero tre tentativi, e quella violenta repressione che passò alla storia come ‘Bloody Sunday’, per permettere a 25mila persone di percorrere 85 chilometri a piedi e raggiungere Montgomery, dopo aver attraversato un altro luogo diventato iconico, l’Edmund Pettus Bridge. Per ricordare la marcia, che culminò con la firma del Voting Rights Act da parte del presidente Lyndon Johnson, il 6 agosto 1965, in questo 60° anniversario si è svolto il Bridge Crossing Jubilee. In questo doppio ‘Giubileo’ dei diritti civili, il tragitto compiuto dagli attivisti si può percorrere in auto, da turisti, facendo tappa nei centri interpretativi e nei siti storici e simbolici (per tutte le informazioni si può consultare il sito web dell’Alabama Tourism Department https://alabama.travel). Tra i luoghi significativi di Selma, si possono visitare la Brown Chapel African Methodist Episcopal Church, dove i manifestanti si riunirono prima della marcia della ‘Bloody Sunday’, e ascoltare testimonianze dirette da guide volontarie presso il National Voting Rights Museum and Institute. Una volta giunti a Montgomery, un buon punto di partenza per visitare la città sulle tracce della storia è proprio quello dell’arrivo della famosa marcia, dove King pronunciò il celebre discorso ‘How Long, Not Long’: la piazza antistante il Campidoglio dello Stato dell'Alabama. Un imponente edificio bianco in stile neoclassico costruito - dopo una prima versione andata a fuoco - nel 1851 all’indomani della proclamazione di Montgomery capitale dell’Alabama, sul modello del ben più famoso ‘cugino’ di Washington. Da qui è passato l’altro volto della storia americana ‘sudista’, quello della Guerra civile, che si è consumata tra il 1861 e il 1865, che si intreccia a doppio filo al percorso dei diritti civili. A pochi passi, la ‘Casa Bianca’ del Sud, infatti, fu sede della Confederazione degli Stati che diede vita alla sfortunata secessione, con la residenza dell’allora presidente Jefferson Davis. Oggi il Capitol Hill di Montgomery è sede delle istituzioni locali e in parte è visitabile, per ammirare, oltre alle stanze del governatore, il ciclo di murales degli anni Venti che ricoprono la cupola e la doppia scala in legno all’ingresso fabbricata da uno schiavo liberato. Domina da una collina, ‘Goat Hill’, la Dexter Avenue, una delle principali vie della città lungo la quale si trovano luoghi simbolo della sua storia. A cominciare dalla King Memorial Baptist Church, risalente al 1883, a mattoncini rossi, iscritta come gli altri due monumenti istituzionali nel registro dei National Historic Landmarks e in attesa di riconoscimento nel Patrimonio Unesco. Oggi è intitolata a Martin Luther King jr. ed è l’unica chiesa di cui è stato pastore: qui si può vedere il pulpito da cui diffondeva il suo messaggio di speranza e sempre qui si tenne la riunione per lanciare il boicottaggio degli autobus, che di fatto segnò la nascita del Movimento per i diritti civili. Visitabile anche il Dexter Parsonage Museum, nella casa dove King è vissuto con la sua famiglia dal 1954 al 1960, restaurata e recuperata come numerose altre costruzioni che fanno parte della ‘Old town’. Tra gli scorci più fotografati di Dexter Avenue, con Capitol Hill sullo sfondo, sicuramente è Court Square Fountain, piazza con al centro una fontana di ferro costruita nel 1885 nel luogo dove un tempo si tenevano le aste degli schiavi. E proprio all’angolo una targa indica la fermata dove Rosa Parks attese il bus e per ricordarla c’è una statua ad altezza uomo. L’edificio dove lavorava, a pochi passi, oggi è un esempio di riqualificazione architettonica: ospita il Prevail Union Craft Coffee, un coffee shop molto attento alla sostenibilità (nel dehors un murales che ritrae Rosa Parks), oltre a laboratori artigianali e gallerie d’arte, ma anche la testimonianza di quando l’ingresso per i bianchi era separato da quello per i neri. Non sono pochi in città gli esempi di riuso post-industriale, come il Freedom Rides Museum, situato nell'ex Greyhound Bus Station, dove i segregazionisti attaccarono i manifestanti per i diritti civili che protestavano pacificamente contro la separazione dei posti nei trasporti pubblici. Un autobus restaurato degli anni Cinquanta è esposto nel Rosa Parks Museum, dove si può vedere anche il documento con le impronte digitali dell’eroina al momento del suo arresto. Il Museo, per volere della stessa Rosa Parks, è completato da una biblioteca aperta ai giovani ed è gestito dalla Troy University. A Montgomery si trova, poi, il primo importante memoriale negli Stati Uniti costruito per onorare il Movimento per i diritti civili. Un monumento dell’artista Maya Lin, la stessa che ha creato il memoriale dedicato ai veterani del Vietnam a Washington, inaugurato nel 1989, che è un tributo ai caduti per la giustizia, in particolare le vittime dei linciaggi: 24 nomi scolpiti su una parete in granito dove scorre l’acqua, a formare una sorta di fontana che delimita anche l’ingresso al Peace and Justice Memorial Center, dove i visitatori possono approfondire la storia della diseguaglianza razziale negli Stati Uniti. Il centro fa capo alla Eji-Equal Justice Initiative, un’organizzazione no proft basata a Montgomery che si occupa di tramandare l’eredità lasciata dal Movimento ma anche di difendere i diritti civili ancora ai giorni nostri. La Eji ha promosso un altro, più recente memoriale, The National Memorial for peace and Justice, sorto nel 2018 in un ampio spazio all’aperto, concepito come un luogo sacro di memoria: a onorare quanti morirono per difendere i loro diritti contro il terrore razziale, una struttura imponente con i nomi di oltre 4mila vittime di linciaggio scolpiti su colonne appese dall’alto che rappresentano ciascuna una diversa contea degli Stati Uniti in cui gli orrori hanno avuto luogo. Una collina del ricordo, del silenzio e della meditazione, che si trova poco distante da Downtown ed è raggiungibile con lo shuttle gratuito che parte dal Legacy Museum, riaperto nell’attuale location nel 2021. Una vasta ed esaustiva ricostruzione, che accoglie 35mila visitatori al mese, con documenti e pannelli interattivi, per ripercorrere i secoli della schiavitù, dalla deportazione dei neri dall’Africa iniziata nel 1619 fino all’abolizione del traffico nel 1800 e alla Guerra Civile, per raccontare una storia che è proseguita nonostante i divieti costituzionali, tanto da portare al Movimento per i diritti civili negli anni Cinquanta e Sessanta; una narrazione che arriva ai giorni nostri, a sottolineare come quella dell’integrazione sia una vicenda tutt’altro che superata. Tra i documenti più toccanti di questa visita immersiva che invita alla riflessione, gli annunci con cui venivano offerti in vendita all’asta gli schiavi. L’ultima, in ordine di tempo, delle location entrate a far parte dei ‘Legacy Sites’ di Montgomery è il Freedom Sculpture Park, aperto lo scorso anno. In un parco affacciato sul fiume, antica via di comunicazione, e a ridosso della ferrovia che trasportava, oltre alle merci, anche gli schiavi, c’è una raccolta di sculture dedicate ai neri ma anche ai nativi americani. Alla fine del percorso su un grande muro sono impressi i nomi di 4 milioni di schiavi, censiti nel 1870. Completa il tour un visitor center dove si può assistere a un video che racconta l’altra sponda della schiavitù, quella africana, e ricostruire alberi genealogici grazie a tavole interattive. Ad annunciare una novità attesa entro l’anno è Ron Simmons, Ceo di Experience Montgomery (https://experiencemontgomeryal.org), la divisione della Camera di commercio che promuove il turismo: “Nell’ambito delle iniziative di Eji, a ottobre aprirà un albergo vicino al Legacy Museum e sarà concepito come una prosecuzione della visita, con nuove sculture esposte e un corridoio in vetro sopraelevato che sarà il punto di osservazione più alto, e un ristorante che proporrà piatti della cucina afro-americana. Crediamo molto nel potenziale turistico del Civil Rights Trail, che solo qualche anno fa era impensabile. A marzo, quando abbiamo celebrato il Jubilee, alla presenza di personalità ed ex presidenti Usa, gli hotel erano tutti pieni”. Il Civil Rights Trail, dopo Montgomery, porta dritto a Birmingham, che per dimensioni è la più grande città dell’Alabama. Cresciuta nel 1800 grazie allo sviluppo delle estrazioni minerarie e dell’industria pesante, Birmingham ha conosciuto una forte immigrazione e nelle sue fabbriche, accanto agli afro-americani, era impiegata e sfruttata anche manodopera europea. Ancora oggi il suo volto post-industriale domina lo skyline e sono ben presenti le tracce di comunità straniere. Un tessuto socio-economico dove la segregazione era imposta dalla legge, dalle consuetudini e dalle violenze, e che ha costituito terreno fertile per rafforzare il Movimento per i diritti civili. Lo stesso Martin Luther King fu chiamato a Birmingham, dove gli eventi facevano correre in avanti la storia: è qui che, arrestato durante una marcia non violenta, scrisse la famosa ‘Lettera dalla prigione di Birmingham’, considerata uno dei documenti più rilevanti del Movimento per i diritti civili. I luoghi simbolo degli eventi che scandirono il Movimento sono raccolti nel Civil Rights District (tutte le informazioni si possono trovare sul sito web www.inbirmingham.com). Il cuore è rappresentato dalla 16th Street Baptist Church, nata nel 1873 come la prima chiesa ‘nera’ di Birmingham e unico luogo di fatto dove gli afro-americani potevano incontrarsi. Oggi l’imponente edificio a mattoncini rossi è un monumento nazionale e visitandolo si può apprendere la storia di eventi che hanno fatto balzare la città alle cronache internazionali segnando il destino del travagliato percorso dei diritti civili, come la bomba piazzata nel 1963 dal Ku Klux Clan, temuta organizzazione segreta terroristica di stampo razzista, che uccise quattro ragazzine. A loro è dedicata la scultura all’ingresso del Kelly Ingram Park, il parco storico che occupa la piazza che fu teatro di dimostrazioni e di violente repressioni, come racconta Barry McNealy, storico del Birmingham Civil Rights Institute e guida turistica: “Ogni angolo di questo luogo offre uno storytelling; parla di marce di bambini resilienti, di violenze ad opera delle forze dell’ordine che usavano potenti getti d’acqua e cani contro i manifestanti. Le sculture e i mattoni del pavimento stanno qui a ricordarlo”. Di fronte, la visita del Birmingham Civil Rights Institute offre una ricostruzione delle condizioni di vita degli afro-americani, ricreando ambienti e contesti urbani. C’è anche la porta originale della cella in cui fu imprigionato Martin Luther King e una serie di documenti audio e video, fra cui il suo famoso discorso in occasione della marcia su Washington in cui pronunciò la frase diventata simbolo ‘I have a dream’, con cui esprimeva il sogno di una società con pari diritti per bianchi e neri. Quella che fu definita la ‘campagna di Birmingham’ impresse un’accelerazione al Movimento per i diritti civili che portò nel 1964 all’emanazione del Civil Rights Act, che vietò la segregazione razziale. Il viaggio emozionale lungo la strada e la storia dei diritti civili può concludersi spingendosi fuori dai confini dell’Alabama per una tappa ad Atlanta, la città che ha dato i natali a Martin Luther King, nel 1929, e dove le sue spoglie sono tornate dopo l’assassinio a Memphis nel 1968. Ad Atlanta si trova la casa dove la famiglia abitò dal 1926 al 1941, in Auburn Avenue, una delle tante in stile vittoriano che popolano interi viali della città. Ma anche la Ebenezer Baptist Church, la chiesa dove prestava servizio il padre, che aveva lo stesso nome, e dove Martin Luther King fu battezzato. All’interno, se si ha la fortuna di trovarla aperta, si possono ascoltare registrazioni dei suoi sermoni. Sulla stessa via si trova il monumento funebre in marmo, in un luogo fortemente evocativo, al centro di una fontana che simboleggia un fiume che scorre con accanto una fiamma perenne. Adiacente è la Freedom Hall che ospita eventi e mostre. L’intero distretto rappresenta il Martin Luther King National Historical Park, che comprende anche un Visitor Center e un’altra chiesa (per informazioni si può visitare il sito https://discoveratlanta.com). A raccontare l’eredità del Movimento per i diritti civili, in Downtown ad Atlanta, è poi il National Center for Civil and Human Rights, attualmente in ristrutturazione. E un fil rouge lega questa eredità all’impegno personale e politico di Jimmy Carter, 39º Presidente degli Stati Uniti d’America, dal 1977 al 1981, georgiano, scomparso solo qualche mese fa a 100 anni. Un impegno, che gli valse anche il Premio Nobel per la pace, raccontato e testimoniato nella Jimmy Carter Presidential Library and Museum che si può visitare immersi nella quiete di un parco di Atlanta. Un altro luogo della memoria e un must per il turista che voglia ripercorrere la storia e le emozioni del Movimento per i diritti civili. Magari facendo una sosta durante lo scalo all’aeroporto di Atlanta che, grazie ai numerosi voli diretti con l’Italia, è anche la porta d’ingresso per l’Alabama.
(Adnkronos) - Procede con successo il progetto di reinserimento del Barbagianni sull’isola di Pianosa. A due anni dall’introduzione di quattro esemplari, i primi risultati emersi dal monitoraggio in corso confermano la presenza stabile di individui nidificanti. Nella cornice della Settimana Europea dei Parchi, Fondazione UNA - Uomo, Natura, Ambiente e Federparchi, presentano i primi risultati ottenuti con il progetto di reinserimento della specie, particolarmente protetta in Italia, sull’isola, avviato nel 2023 con il contributo dell’Ente Parco Nazionale Arcipelago Toscano. L’iniziativa, della durata complessiva di 25 mesi, vuole favorire la ricolonizzazione naturale dell’isola da parte del Barbagianni (Tyto alba), specie non più rilevata in quest’area in modo stabile a seguito dell’eradicazione del ratto nero, una delle sue principali fonti di alimentazione. Per ovviare quindi alla perdita di biodiversità, grazie al lavoro congiunto delle istituzioni coinvolte, nella primavera del 2024 sono stati reintrodotti sull’isola quattro individui di Barbagianni di popolazione italiana, provenienti da centri di recupero della fauna selvatica. Grazie a un attento programma di monitoraggio, poi, è stato possibile constatare che il Barbagianni è tornato a nidificare stabilmente sull’isola: in una prima fase, sono stati condotti sopralluoghi notturni e ricerche diurne per accertarne la presenza. In un secondo momento, invece, sono stati raccolti in laboratorio nuovi elementi, utili a definire la dieta dei rapaci in questo ambito territoriale e ad anticiparne le condizioni trofiche utili a preservare la specie. Tutte attività che hanno richiesto l’impiego di svariate tecnologie di rilevamento, dai sensori infrarossi per monitorare le presenze fino agli appositi strumenti di geolocalizzazione satellitare. Un tavolo di lavoro articolato che proseguirà fino alla fine del 2025, con ulteriori sessioni di monitoraggio, con l’obiettivo di consolidare la presenza stabile della specie sull’isola e promuovere una convivenza armoniosa tra uomo, natura e ambiente. Il progetto si inserisce, per questo, nell’ambito delle iniziative promosse a livello nazionale da Fondazione UNA e Federparchi, tra cui il programma ‘Biodiversità in Volo’ che ha coinvolto fino ad ora otto Parchi nazionali con l’intento di sensibilizzare l’opinione pubblica sull’importanza di tutelare la fauna selvatica. “Il successo del progetto di reinserimento del Barbagianni sull'isola di Pianosa è la prova tangibile di come una collaborazione efficace tra istituzioni, enti locali e comunità scientifica possano, unita a una visione condivisa, possa giovare al mantenimento degli l'equilibri naturali - ha commentato Maurizio Zipponi, presidente di Fondazione UNA - Questo risultato, frutto della sinergia con Federparchi e l'Ente Parco Nazionale Arcipelago Toscano, va ben oltre i confini dell'isola di Pianosa: rappresenta un tassello fondamentale nella missione più ampia di Fondazione UNA, che si impegna nella tutela della fauna selvatica su tutto il territorio nazionale con azioni concrete”. "Il progetto per la reintroduzione del barbagianni nel Pnat è l'ultimo di una proficua collaborazione tra Federparchi e Fondazione UNA, finalizzata a rafforzare la cooperazione con le aree protette a partire dai parchi nazionali. Il progetto, infatti, si svolge nell'ambito di ‘Biodiversità in Volo’, un programma di lavoro che vede insieme il mondo dei parchi e quello venatorio per la tutela degli ecosistemi e la lotta al bracconaggio", ha concluso Luca Santini, presidente di Federparchi.