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(Adnkronos) - "In Italia le diagnosi per Hiv arrivano in ritardo in 6 casi su 10: parliamo di persone con un quadro clinico avanzato e un'immunità fortemente ridotta per colpa dell'infezione. Il dato più allarmante è che 6 persone su 10 ben 12 mesi prima della diagnosi avevano avuto un contatto con un medico di medicina generale e con degli specialisti che, però, non avevano saputo cogliere i segnali di un quadro clinico già evidente di infezione di Hiv per far fare lo screening". Così all'Adnkronos Salute Massimo Andreoni, professore merito di malattie infettive all'Università di Roma Tor Vergata, direttore scientifico della Società italiana di malattie infettive e tropicali (Simit), intervenuto all''Hiv Summit: Ending the Hiv Epidemic in Italy', evento che oggi a Roma ha coinvolto istituzioni, decisori politici, esperti del mondo medico-scientifico e rappresentanti delle associazioni. "La ricerca in ambito Hiv ha fatto dei progressi incredibili: oggi più del 90% dei soggetti trattati ha un virus perfettamente sotto controllo - sottolinea Andreoni - Tuttavia, abbiamo 40 milioni di persone con Hiv nel mondo e l'infezione continua a propagarsi anche in Italia, dove si fanno ancora pochi screening. Invece occorre allargare lo screening, tornare a parlare di Hiv, perché ormai se ne parla troppo poco e le persone non hanno più nozione e consapevolezza di questa malattia". Per l'infettivologo "il trattamento per l'Hiv funziona molto bene", ma "trattare una persona che ha un'infezione avanzata" vuol dire una sola cosa, "che la sua aspettativa di vita sarà ridotta e non sarà come quella di chi ha avuto una diagnosi precoce molto simile a quella della popolazione non Hiv infetta". "La maggior parte delle persone che arrivano alla diagnosi di infezione di Hiv sono uomini, eterosessuali e non, in minor numero le donne, in particolare eterosessuali e straniere", conclude Andreoni.
(Adnkronos) - L’artigianato moda in Italia, che comprende tessile, abbigliamento, pelletteria e calzature, si conferma un pilastro dell’economia nazionale, con circa 40.000 imprese artigiane attive nel 2024: le imprese artigiane, pur rappresentando il 41,7% delle 96.000 realtà del settore moda, generano un fatturato stimato di circa 21 miliardi di euro, pari al 25-30% del totale settoriale, ma con una flessione dell’8,1% rispetto al 2023, dovuta a congiuntura economica sfavorevole, aumento dei costi e contrazione dell’export (-5,3% nel 2024). Costi energetici (+10,4%) e contraffazione (1,7 miliardi di perdite) pesano sui risultati. La digitalizzazione, adottata solo dal 15% delle artigiane, resta una sfida chiave per la competitività. E' quanto emerge da un report del Centro studi di Unimpresa secondo cui l’artigianato moda italiano si concentra nei distretti del Nord e Centro, con Lombardia, Toscana e Veneto che rappresentano oltre il 60% del fatturato nazionale (12,9 miliardi) e il 57% delle imprese artigiane. La Toscana spicca per produttività, con il fatturato medio per impresa più alto, mentre regioni come Campania e Puglia faticano a causa di mercati meno remunerativi. Il settore dell’artigianato moda, pur resiliente in alcune nicchie di lusso, affronta sfide comuni come il calo dell’export, l’aumento dei costi energetici (+10,4% a marzo 2025) e la contraffazione, che sottrae 1,7 miliardi annui alle artigiane, soprattutto in Lombardia e Toscana. La ricerca verrà illustrata oggi nel corso del convegno 'Made in Italy ed Eccellenze Fragili', evento dedicato al rilancio delle microimprese artigianali della moda, che si svolgerà alle ore 17.00, al Palazzo dal Lago a Cles (via Trento 1), in provincia di Trento, alla presenza di istituzioni, scuole, imprenditori e rappresentanti del settore. Il convegno gode del patrocinio del Ministero delle Imprese, della Casa del Made in Italy di Trento e Bolzano, dell’Università degli Studi di Trento, dell’Unesco e del Comune di Cles. "C’è la necessità di politiche mirate per sostenere la competitività dell’artigianato moda, valorizzando le eccellenze regionali e affrontando le fragilità strutturali. Oggi assistiamo a una crescente disconnessione tra i grandi nomi del lusso e le fondamenta artigiane che li rendono possibili. Se da un lato celebriamo operazioni industriali ambiziose, dall’altro trascuriamo quelle migliaia di microimprese che rappresentano l’anima più autentica del Made in Italy. Le botteghe artigiane non sono solo presidi di cultura produttiva, ma anche un modello economico sostenibile, radicato nei territori, capace di creare occupazione e mantenere vive competenze uniche al mondo. La verità è che l’artigianato sta pagando un prezzo altissimo: tra aumento dei costi, calo dell’export e concorrenza sleale, molte imprese rischiano di scomparire nel silenzio. E' tempo di scelte politiche coraggiose: servono incentivi fiscali, investimenti nella formazione tecnica, supporto alla transizione digitale e strumenti per proteggere il passaggio generazionale. Senza queste leve, continueremo ad applaudire i successi del lusso su scala globale, ma perderemo, pezzo dopo pezzo, il tessuto che li rende possibili. Il Made in Italy non può essere una vetrina da esportare, se non tuteliamo ciò che la rende credibile: la qualità artigiana. Difendere le microimprese della moda significa salvaguardare una storia collettiva di lavoro, sacrificio e bellezza, che non possiamo permetterci di archiviare per inseguire la sola logica del profitto. L’Italia non ha bisogno solo di marchi forti: ha bisogno di mani che sappiano ancora creare", commenta il presidente di Unimpresa Moda, Margherita de Cles. Secondo il Centro studi di Unimpresa, la distribuzione regionale dell’artigianato moda evidenzia una forte concentrazione nel Nord e Centro Italia, con differenze marcate in termini di numero di imprese, occupazione e fatturato, riflesse nelle specificità dei distretti produttivi e nelle vocazioni artigianali locali. La Lombardia si afferma come leader indiscussa, ospitando 9.000 imprese artigiane (22,5% del totale nazionale) e generando un fatturato di circa 5,5 miliardi, pari al 26,2% del comparto artigianale moda. La regione beneficia dei distretti di Milano, centro nevralgico della moda di lusso, e Como, rinomato per il tessile di alta gamma, con un fatturato medio per impresa di 610.000 euro, tra i più elevati d’Italia. L’occupazione regionale conta circa 30.000 addetti, sostenuta da produzioni sofisticate e da una forte proiezione internazionale, che rende la Lombardia meno vulnerabile al calo della domanda interna. Segue la Toscana, con 6.500 imprese artigiane (16,3% del totale) e un fatturato di 4,2 miliardi (20% nazionale), distinguendosi per la sua resilienza economica. Il distretto di Firenze-Prato, cuore della pelletteria di lusso, e Santa Croce sull’Arno, leader nella concia, trainano il settore, con un fatturato medio per impresa di 645.000 euro, il più alto in Italia, grazie alla domanda di marchi internazionali. Le imprese toscane impiegano circa 25.000 addetti, di cui il 70% in microimprese, e mostrano un calo del fatturato limitato (-6% rispetto al 2023), sostenuto dall’export verso Usa e Asia. Il Veneto, con 6.000 imprese artigiane (15% del totale), contribuisce con 3,2 miliardi di fatturato (15,2% nazionale), concentrandosi su calzature sportive e di qualità (distretto di Montebelluna) e abbigliamento casual (Treviso). Il fatturato medio per impresa, pari a 533.000 euro, riflette una solida base produttiva, con circa 20.000 addetti impiegati. Nonostante un calo dell’8-10% nel 2024, in linea con la media nazionale, il Veneto mantiene una buona performance export (+2,8% verso l’Europa), che mitiga l’impatto della crisi interna. L’Emilia-Romagna, con 4.000 imprese artigiane, genera un fatturato di 2,1 miliardi (10% nazionale), grazie alla maglieria e sartoria dei distretti di Carpi e Bologna. Con un fatturato medio di 525.000 euro per impresa e circa 15.000 addetti, la regione mostra stabilità, ma risente di un calo degli ordinativi (-10% nel Q4 2024), legato alla contrazione della domanda interna. Similmente, le Marche, con altre 4.000 imprese artigiane, producono 2 miliardi fatturato (9,5%), concentrate nel distretto calzaturiero fermano-maceratese, noto per produzioni di alta gamma per brand di lusso. Qui, il fatturato medio di 500.000 euro e i 15.000 addetti evidenziano un settore specializzato, ma vulnerabile al calo dell’export di calzature (-8,5%), con una flessione del fatturato del 9%. Al Sud, la Campania si distingue con 3.500 imprese artigiane, che generano 1,3 miliardi (6,2% nazionale), principalmente nella concia (Solofra) e pelletteria (Napoli). Tuttavia, il fatturato medio di 370.000 euro, tra i più bassi, e un calo del 12% riflettono la dipendenza da mercati interni deboli e un export in difficoltà (-8,4% per pelli), con circa 12.000 addetti impiegati. La Puglia, con 2.500 imprese, contribuisce con 900 milioni (4,3%), focalizzata su calzature e abbigliamento (Barletta), ma con un fatturato medio di 360.000 euro e 8.000 addetti, risente della domanda interna stagnante e di produzioni meno di nicchia. Tra le altre regioni del Nord, il Piemonte registra 1.800 imprese artigiane e un fatturato di 700 milioni (3,3%), grazie al tessile di qualità di Biella, con un fatturato medio di 390.000 euro e 6.000 addetti. Il Lazio, con 1.500 imprese e 500 milioni (2,4%), si concentra sulla moda sartoriale di Roma, ma il fatturato medio di 333.000 euro e i 5.000 addetti evidenziano una dipendenza dalla domanda locale, in calo del 10%. Il Friuli-Venezia Giulia (600 imprese, 150 milioni, 2.000 addetti) e il Trentino-Alto Adige (500 imprese, 120 milioni, 1.500 addetti) hanno un ruolo minore, con produzioni di nicchia e fatturati medi contenuti (250.000-240.000 euro). Nel Centro-Sud, l’Umbria (800 imprese, 200 milioni, 3.000 addetti) si distingue per maglieria di qualità, mentre l’Abruzzo (900 imprese, 250 milioni, 3.000 addetti) rimane limitato a piccole realtà artigiane. La Sicilia (1.200 imprese, 300 milioni, 4.000 addetti) e la Sardegna (350 imprese, 70 milioni, 1.000 addetti) si caratterizzano per produzioni tessili tradizionali, con fatturati medi bassi (250.000-200.000 euro). Basilicata e Calabria (entrambe 400 imprese, 80 milioni ciascuna, 1.200 addetti ciascuna) hanno un impatto economico minimo, così come il Molise (200 imprese, 40 milioni, 600 addetti) e la Valle d’Aosta (100 imprese, 20 milioni, 200 addetti), dove l’artigianato moda è marginale. Il panorama dell’artigianato moda italiano nel 2024 si trova a un crocevia di opportunità e ostacoli, con dinamiche che riflettono sia la resilienza delle sue eccellenze sia le pressioni di un contesto economico globale incerto. La concentrazione geografica delle imprese, che vede Lombardia, Toscana e Veneto generare oltre il 60% del fatturato nazionale, evidenzia il peso dei distretti produttivi storici, come quello di Firenze-Prato per la pelletteria di lusso o Montebelluna per le calzature, che continuano a sostenere l’export verso mercati chiave come Stati Uniti e Asia. Tuttavia, il settore ha subito un calo complessivo del fatturato dell’8,1% rispetto al 2023, una flessione aggravata da un export in contrazione del 5,3% nei primi sei mesi del 2024, particolarmente marcata per pelli (-8,4%) e tessile (-7,6%), con regioni come la Campania penalizzate dalla dipendenza da filiere meno di nicchia. L’aumento dei costi energetici, saliti del 10,4% a marzo 2025, e delle materie prime ha ulteriormente compresso i margini delle microimprese artigiane, specialmente in regioni come Puglia e Lazio, dove la domanda interna stagnante non compensa le difficoltà. Parallelamente, la contraffazione rappresenta una minaccia costante, con perdite stimate di 1,7 miliardi annui, che colpiscono duramente le artigiane di Toscana e Lombardia, custodi del prestigio del Made in Italy. Nonostante ciò, emergono segnali di vitalità: la Toscana, a esempio, dimostra una resilienza superiore, con un calo del fatturato limitato al 6% grazie alla crescente domanda di prodotti sostenibili e certificati, mentre le Marche mantengono un posizionamento competitivo nelle calzature di alta gamma. La digitalizzazione rimane una sfida cruciale, con solo il 15% delle artigiane che adotta tecnologie avanzate, un gap che rischia di penalizzare la competitività rispetto alle grandi imprese, specialmente in regioni meno strutturate come Sicilia e Calabria. Il futuro dell’artigianato moda dipenderà dalla capacità di coniugare tradizione e innovazione, valorizzando le specificità regionali per affrontare un mercato sempre più complesso.
(Adnkronos) - Il Gruppo Davines, azienda attiva nel settore della cosmetica professionale, B Corp dal 2016, rinnova il suo impegno per incentivare le pratiche agroecologiche e lancia, in collaborazione con la Fondazione per lo sviluppo sostenibile, la seconda edizione del 'The Good Farmer Award'. L’iniziativa è la prima in Italia che premia gli agricoltori che abbiano avviato progetti ispirati ai principi fondamentali dell’agricoltura biologica rigenerativa e dell’agroecologia. Anche quest’anno il Premio è dedicato ai giovani agricoltori under 35 che potranno candidare il proprio progetto dal 3 aprile al 16 giugno 2025 sul sito https://davinesgroup.com/il-nostro-impatto/percorsi/the-good-farmer-award. L’obiettivo è di contribuire alla diffusione di una nuova cultura di produzione agricola, che sostenga la transizione ecologica delle filiere agroalimentari. La Giuria del Premio selezionerà i due progetti più innovativi e avanzati e i due vincitori riceveranno dal Gruppo Davines 10.000 euro ciascuno per l’acquisto del materiale e per interventi finalizzati a migliorare e sviluppare le pratiche agroecologiche già avviate. La cerimonia di premiazione si terrà tra la fine di novembre e l’inizio di dicembre 2025 al Davines Group Village di Parma. Requisiti necessari per accedere al bando sono l’avere una certificazione biologica in corso di validità e applicare i principi dell’agricoltura biologica rigenerativa e dell’agroecologia. In particolare i giovani agricoltori coinvolti e le loro aziende agricole dovranno dimostrare di utilizzare almeno tre tra le strategie e le pratiche di agricoltura biologica rigenerativa e agroecologia identificate dal bando, tra cui la rotazione colturale, il minimo disturbo del suolo, l’utilizzo di fertilizzanti organici, la coltivazione di alberi associata a campi seminativi o a pascoli, l’uso di colture di copertura come le leguminose e la pacciamatura del terreno (ossia la copertura del terreno con materiale organico come paglia o foglie). Per la sua seconda edizione il Premio si arricchisce con un’importante novità: potranno candidare i loro progetti anche le aziende agricole-zootecniche attente al benessere animale, che utilizzano sistemi di allevamento estensivi e che adottano pratiche zootecniche rivolte al miglioramento degli agroecosistemi, attraverso per esempio l’utilizzo del letame per la concimazione e il riciclo di nutrienti vegetali come mangime. La scelta di coinvolgere anche le aziende agricole-zootecniche è coerente con le finalità del Premio, rivolto a supportare e incentivare la creazione di sistemi agricoli sinergici, che imitano i processi naturali e traggono vantaggio dalle interazioni benefiche che si verificano naturalmente in campo. La Giuria del Premio La Commissione che valuterà e selezionerà i progetti è composta da otto membri, fra professori universitari ed esperti in temi di agricoltura, agroecologia e sostenibilità, integrata quest’anno con due esperti di zootecnia. Quest’anno il premio 'The Good Farmer Award' ha anche un’edizione americana: la filiale del Gruppo Davines in Nord America, insieme al Rodale Institute, ha da poco chiuso le candidature per gli agricoltori e gli allevatori che abbiano avviato un'attività negli Stati Uniti da meno di dieci anni e che utilizzano pratiche di agricoltura biologica rigenerativa. Il 22 aprile 2025, in occasione della Giornata Mondiale della Terra, verrà nominato il vincitore del 'The Good Farmer Award' US che riceverà un premio di 10.000 dollari da Davines Nord America da investire in attrezzature o iniziative che migliorino le pratiche agro-ecologiche della sua impresa agricola. Il farmer premiato avrà anche la possibilità di visitare l'European Regenerative Organic Center (Eroc) che il Gruppo Davines ha realizzato a Parma insieme al Rodale Institute. Il secondo e terzo classificato dell’edizione americana del Premio vinceranno un corso di formazione del Rodale Institute Education Resources sulle migliori pratiche di agricoltura biologica rigenerativa.