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(Adnkronos) - La sicurezza avrebbe dovuto impedire alla principessa Diana di salire sulla Mercedes, il 31 agosto del 1997, giorno del fatale incidente a Parigi. La sua fedele guardia del corpo Ken Wharfe lo avrebbe certamente fatto, ma non era al servizio della principessa di Galles ormai già da 4 anni. Parlando della sua morte in un nuovo documentario dell'emittente britannica Channel 5 intitolato 'Diana: The Princess and the Bodyguard', ha dichiarato: "Ho ripensato a quel momento in cui Diana ha abbandonato la sua sicurezza perché sapevo nel profondo del mio cuore che senza di essa, alla fine sarebbe morta". Quando il 3 dicembre 1993 la principessa Diana annunciò che si sarebbe ritirata dalla vita pubblica, durante un discorso tenuto all'ente benefico Headway per la cura delle lesioni cerebrali, la sua fedele guardia del corpo Ken Wharfe non era al suo fianco. Solo poche settimane prima, il Royal Protection Officer aveva scatenato una raffica di titoli sui giornali dopo essersi ritirato dal ruolo di guardia del corpo di Diana dopo più di sei anni. Ora, Wharfe, 77 anni, ha rivelato di non essersi sentito in grado di proteggere la principessa dopo la sua separazione dal principe Carlo, l'anno precedente. E ha affermato che la sua decisione di abbandonare le guardie del corpo alla fine ne ha causato la morte. Wharfe entrò a far parte della famiglia reale nel 1986, per prendersi cura dei principi William e Harry, allora rispettivamente di quattro e due anni. Nel giro di un anno, lavorava come guardia del corpo della principessa: al suo precedente agente di protezione Graham Smith era stato diagnosticato un cancro terminale e Diana lo aveva nominato nel 'team A'. Il 9 dicembre 1992, dopo la pubblicazione del libro di Andrew Morton 'Diana: Her True Story', Buckingham Palace annunciò che la coppia si stava separando. "Solo quando tornai a Kensington Palace qualche giorno dopo - racconta Wharfe - lei mi chiese: 'Hai sentito la notizia, Ken?'. E io risposi: 'Sì'. Chiesi: 'Come si sente?'. 'Beh, è finita'. Era incredibilmente in lacrime perché non dimentichiamoci che quando si fa una dichiarazione del genere al mondo, ovvero che il tuo matrimonio è effettivamente finito, è una cosa molto angosciante da sentire. Ma chiaramente, dal mio punto di vista, questo era ciò che voleva. Voleva uscire da quel matrimonio". Nel corso dell'anno successivo, il suo rapporto con la guardia del corpo divenne sempre più conflittuale. "Il 1993 divenne un periodo molto, molto difficile per Diana", prosegue Wharfe. "Sai, in realtà stava pensando a cosa fare dopo: 'Quando divorzierò? Cosa farò quando avrò divorziato?' Aveva parlato molte, moltissime volte di normalità e credo che cercasse una maggiore libertà. A marzo di quell'anno, Wharfe accompagnò Diana in una delle sue località sciistiche preferite, Lech, in Austria, ma la principessa stava già superando i limiti. "Era una mattina presto - racconta - verso le sei e mezza, quando fui svegliato dal mio addetto alla sicurezza notturna, che mi disse con tono piuttosto imbarazzato che Diana era appena entrata, era tornata in hotel". "Gli chiesi: 'Cosa intendi con 'entrare e basta'? Mi stai dicendo che l'hai fatta uscire?'. E lui ha detto: 'No, signore, non l'ho fatto'. 'Allora come è uscita?' Lui ha risposto: 'Non lo so' Non riusciva proprio a capire come avesse fatto a lasciare l'hotel. Così, sono uscito sul davanti della sua suite e sul balcone. Quella notte c'era stata una forte nevicata e riuscivo a vedere questa impronta nella neve alta e poi quei passi sul balcone. Con mio grande stupore, mi resi conto che doveva essere saltata giù da circa 6 metri dal balcone del primo piano. Avrebbe potuto morire. Voglio dire, non sto facendo un'osservazione di poco conto. Ero davvero preoccupato, davvero, per il suo stato d'animo nel tentare o credere di poter fare una cosa del genere". "Dovevo accertarmi che Diana fosse al sicuro, che fosse in albergo. Così sono andato a bussare alla sua porta. E lei era molto, molto felice, molto allegra. 'Oh, ciao Ken, entra'. Le ho chiesto: 'Sta bene?' E lei ha risposto: 'Sì. Avevo solo bisogno di un po' d'aria, Ken'. Allora ho detto: 'È una cosa piuttosto stupida buttarsi da quel balcone'. Ha detto: 'Ho semplicemente deciso che volevo andarmene. Non volevo disturbare i tuoi colleghi. Non volevo creare problemi'. Le ho detto: 'Sarebbe potuto essere un vero problema se si fosse suicidata'". Nella sua intervista, Wharfe cita anche un altro episodio, nello stesso anno, riguardo il comportamento spericolato della principessa. Diana stava tornando a Kensington Palace in auto, con Wharfe seduto sul sedile del passeggero anteriore. "Mi ha detto: 'Oh, devo fare un po' di shopping a Kensington High Street. Puoi parcheggiare la macchina'. E io ho risposto: 'Non parcheggio qui, ci sono le linee gialle. Non possiamo'. 'Beh, puoi farcela, sei un agente di polizia'. Dissi: 'Signora, cosa le succede? Sa che non posso farlo'. 'No, voglio fare un po' di shopping'. 'Va bene. Parcheggiamo la macchina in modo sensato e poi lo facciamo insieme'. E lei si agitò parecchio. Ci fu un leggero urlo, come per dire: 'Oh, okay. Va bene allora'. A quel punto la portiera di Diana si aprì e lei corse verso Kensington High Street". "Per fortuna sapevo dove stava andando, così sono andato a piedi fino alla Tower Records. Ho aspettato lì per dieci o quindici minuti, e finalmente Diana è uscita. Dopodiché, siamo andati a Kensington Palace, siamo arrivati all'ingresso principale e lei è entrata. Ho pensato che non fosse questo il modo in cui la sicurezza doveva essere gestita, visto che la persona protetta stava di fatto scappando da chi la doveva proteggere. Quella sera sono tornato a casa e ho pensato: forse sono arrivato al punto in cui non posso più garantire onestamente la sua sicurezza e protezione. Il giorno seguente, continuammo il nostro servizio quotidiano e arrivammo a Kensington Palace nel tardo pomeriggio. Ricordo di averle detto: 'Prima che vada, signora, posso scambiare due parole con lei?'". "E lei rispose: 'Sì, certo'. Ho detto: 'Guardi, dopo quello che è successo ieri, temo che non sia qualcosa che sono disposto ad accettare. Perché questo, per me, mette davvero a repentaglio la sua sicurezza e per questo motivo lascerò il servizio'. Penso che fosse un po' scioccata, a dire il vero. Onestamente non credo che si aspettasse che dicessi una cosa del genere. Credo che abbia pensato, beh, andiamo avanti come abbiamo fatto finora, ma vedevo che le cose stavano peggiorando. E non ero pronta ad accettare una cosa del genere. È stata una decisione difficile. Mi dispiaceva perché mi piaceva il lavoro che facevo con lei, ma sentivo che era la decisione giusta, anche solo per garantire la sua sicurezza. E non volevo far parte di un team di sicurezza che l'avrebbe delusa". Poche settimane dopo che Wharfe diede le dimissioni, Diana abbandonò la sua squadra di sicurezza. "Pensavo fosse stato un errore fatale", ha detto l'ex guardia del corpo. "Quasi da un giorno all'altro Diana si è ritrovata senza un addetto alla protezione". Wharfe scoprì che Diana era morta nelle prime ore del 31 agosto 1997. "Quando l'ho saputo, sono rimasto completamente sbalordito. Dopo l'incidente di Parigi, ho analizzato moltissime volte le carenze di sicurezza verificatesi quella notte, che sono state numerose. Per me è stato molto difficile accettare il fallimento del team di protezione. Morì tragicamente quando in realtà non avrebbe dovuto. Se Philip Dorneau, l'autista, fosse partito dall'hotel scortato dalla polizia e i paparazzi fossero stati identificati prima della partenza, quella notte Diana non sarebbe morta".
(Adnkronos) - "I dati Inail sugli infortuni ad ottobre 2025 evidenziano una situazione assolutamente preoccupante, con un incremento anche dei casi mortali e con un aumento a doppia cifra delle malattie professionali. E proprio su quest'ultimo aspetto l'Inca, il patronato della Cgil, cerca di aiutare i lavoratori a prendere coscienza dei danni subiti sul posto di lavoro". Lo dice, in un'intervista all'Adnkronos/Labitalia, Sara Palazzoli, del Collegio di presidenza Inca Cgil con delega 'danni alla persona'. (VIDEO) "I lavoratori - spiega - non hanno coscienza che i danni subiti alla propria salute possano avere una derivazione lavorativa e, quindi, i decessi che ne derivano non vengono conteggiati nell'elenco degli infortuni sul lavoro. Con le nostre categorie, insieme alle rsu in generale cerchiamo far conoscere ai lavoratori i rischi che può comportare alla salute, in termini d malattie professionali". "Le malattie osseoarticolari - sottolinea - sono le più facili da individuare e riconoscere, così come quelle del sistema nervoso. Poi però ci sono le neoplasie professionali e proprio qui che, come Inca, cerchiamo di dare maggiore consapevolezza ai lavoratori dei rischi a cui sono esposti, soprattutto a non sottovalutare i sintomi e risalire al fatto che quel tumore derivi direttamente dall'attività lavorativa svolta per molti anni". "Una volta individuata la causa professionale del tumore - continua Sara Palazzoli - cerchiamo di tutelare il lavoratore grazie ai medici convenzionati che sono nelle nostre sedi, che lo accolgono ed esaminano la situazione. Si avvia il percorso del riconoscimento della neoplasia professionale attivando quelle prestazioni che vengono riconosciute dall'Inail. Attraverso il riconoscimento della malattia professionale possiamo anche attivare la rendita per i familiari nel caso in cui il lavoratore venga a mancare". "Sono troppe - osserva - le sostanze cancerogene a cui i lavoratori sono esposti; prendiamo anche, ad esempio, l'esposizione ai raggi solari che può portare l'epitelioma cutaneo. Una causa che può interessare tutti i lavoratori che svolgono lavori all'aperto, non solo gli agricoli o gli edili, ma anche un vigile urbano ad esempio". "Ci sono poi - continua - le malattie professionali derivanti dall'esposizione alle polveri del legno e delle vernici, coloranti, pesticidi, cioè le sostanze sono ancora tante e noi dobbiamo mettere in campo la corretta tutela per le lavoratrici e i lavoratori che si ammalano di lavoro. I nostri medici, i medici dei Patronati sono nelle condizioni. Attraverso un percorso di conoscenza di attivare quella quel percorso adeguato per il giusto riconoscimento, dal momento che subisco un danno per il lavoro che io svolgo".
(Adnkronos) - Opere di bonifica e rimboschimento, casette-nido per gli uccelli, un catasto dei ghiacciai Alpini. Il Gruppo Sanpellegrino rinnova il proprio impegno per la tutela dell’acqua, degli habitat montani e della biodiversità in Alta Valtellina illustrando i primi risultati dello studio dei servizi ecosistemici e gli interventi implementati negli ultimi anni in queste aree colpite dalla tempesta Vaia nel 2018. L’eccezionale evento atmosferico aveva infatti abbattuto circa 115 ettari di foresta solo nel Comune di Valdisotto e, per la maggior parte, nella zona di Cepina dove di trova lo stabilimento di Levissima. (Video) I progetti di riforestazione sviluppati da Sanpellegrino insieme al Comune di Valdisotto, al Consorzio Forestale Alta Valtellina e all’Università degli Studi di Milano, avviati nel 2023, segnano un importante risultato, nel solco di un intervento più ampio che proseguirà fino al 2027 con ulteriori opere di bonifica, rimboschimento e bioingegneria del suolo per ridurre la caduta di massi e frane e limitare l’erosione. Dal 2028 al 2033 è inoltre prevista una terza fase dedicata alla manutenzione del bosco rigenerato dopo questi interventi. Parallelamente, il Gruppo Sanpellegrino, con il supporto dell’Università degli Studi di Milano e del Consorzio Forestale dell’Alta Valtellina, ha analizzato le opere effettuate nel biennio 2024-2025 - ed eseguito una valutazione dei servizi ecosistemici - ovvero i benefici che la natura fornisce e che contribuiscono alla stabilità ambientale ed al benessere dell’uomo. I primi risultati, presentati oggi, hanno evidenziato, attraverso indicatori ambientali ed economici, i danni provocati da Vaia e i benefici ripristinati grazie agli interventi di riqualificazione. In particolare, i 115 ettari di foresta danneggiata nel Comune di Valdisotto hanno portato a una perdita dello stock di legname superiore a 28mila metri cubi. Grazie alle prime tranche di lavori, ad oggi, sono stati fatti interventi su 51 ettari di bosco di cui: 18 ettari di recupero di piante schiantate o colpite dal bostrico (un coleottero la cui proliferazione è stata favorita dalla marcescenza degli alberi caduti), 9 ettari di rimboschimenti e 24 ettari di interventi preventivi. Sono stati rimossi 4.500 metri cubi di legno compromesso e piantati 15mila alberi appartenenti a otto specie differenti. Secondo lo studio sui servizi ecosistemici realizzato dall’Università degli Studi di Milano, le opere di riforestazione condotte nelle aree più colpite della zona di Cepina (Comune Valdisotto) consentiranno un aumento del valore della provvigione pari a 260mila euro: nello specifico passerà da 1.140.000 euro a 1.400.000 euro (calcolato sull’ultimo dato disponibile del prezzo del legname). Tutti questi interventi, valutati secondo indicatori scientifici, porteranno benefici quantificabili nel tempo, tra i quali anche un incremento del volume di acqua rigenerata stimato in circa 1,4 milioni di metri cubi (2023-2035). È in corso, inoltre, un’indagine sui servizi turistici dell’area di Bormio, basata su oltre 300 questionari, che consentiranno di valutare la percezione del territorio da parte di residenti e visitatori, il valore dei servizi socioeconomici, principalmente legati al turismo e la disponibilità a contribuire economicamente alla preservazione di questo habitat. Un altro progetto, messo in campo da Sanpellegrino, è quello delle 'Casette nido', realizzato in collaborazione con l’Università degli studi di Milano, il Consorzio Forestale Alta Valtellina e il Parco Nazionale dello Stelvio, per contribuire alla tutela della biodiversità ornitologica nelle aree colpite da Vaia. La tempesta aveva compromesso in modo significativo anche la presenza di specie insettivore come la cincia nera, che nidifica esclusivamente in cavità presenti in alberi maturi. Per favorire la ricolonizzazione naturale, sono state installate 40 casette-nido attualmente monitorate dai ricercatori attraverso 50 punti di ascolto, che hanno permesso di osservare già le prime covate. In aggiunta, sono state posizionate 10 casette-nido dedicate alla civetta nana, un rapace simbolo delle alte quote e specie a rischio. Da oltre 17 anni Sanpellegrino, in collaborazione con l’Università degli Studi di Milano e le istituzioni locali della Valtellina, sostiene la tutela degli ambienti montani locali. Questa collaborazione ha portato, negli anni, alla realizzazione del primo catasto di tutti i ghiacciai Alpini - con dati e informazioni sui 903 ghiacciai presenti sulle nostre montagne - e alla realizzazione di un programma di studio della criosfera. Le ricerche sono partite dal bacino glaciale Dosdè-Piazzi, da cui sgorga l’acqua Levissima, e dal 2014 le attività di campo includono anche il Ghiacciaio dei Forni, nel Parco dello Stelvio. “Proteggere i territori in cui sgorgano le nostre acque minerali è da sempre parte integrante del nostro impegno, ma oggi tutelare la biodiversità, minacciata dai cambiamenti climatici, come l'evento atmosferico estremo di Vaia, richiede uno sforzo ancora più grande. Continuiamo quindi ad adottare un approccio scientifico, lavorando insieme ai nostri partner per rigenerare i cicli idrologici e gli ecosistemi locali. Ci impegniamo, inoltre, a mettere a sistema, con le istituzioni e le realtà dei territori in cui siamo presenti, le esperienze già avviate, come il progetto per i ghiacciai - che portiamo avanti da più di 17 anni - il progetto Vaia, e a costruire insieme nuove partnership volte a sviluppare soluzioni innovative per affrontare le sfide future, ha dichiarato Ilenia Ruggeri, direttore generale del Gruppo Sanpellegrino. “L’obiettivo del Parco nazionale dello Stelvio è quello di rendere gli ecosistemi più resilienti, affinché siano in grado di assorbire gli impatti - ambientali, sociali o economici, che inevitabilmente attraversano un territorio vivo. La ricerca e le iniziative di sensibilizzazione, supportate anche da Levissima, nella nostra lunga collaborazione, ci consentono oggi di intervenire con misure calibrate sui luoghi e sui loro limiti ecologici e di trovare infine un equilibrio tra tutela, fruizione e sviluppo economico e locale”, ha affermato Franco Claretti, direttore Parco Nazionale dello Stelvio. “La Tempesta Vaia ha messo in evidenza la vulnerabilità degli ecosistemi forestali nei confronti dei sempre più frequenti eventi meteorologici estremi, rendendoci più consapevoli delle sfide future che i gestori forestali dovranno affrontare e inducendoci a ripensare le strategie di intervento tradizionali - ha aggiunto Michele Franzini, dottore Forestale del Consorzio Forestale Alta Valtellina - Il sostegno del Gruppo Sanpellegrino ci sta permettendo di affrontare con continuità questo percorso così importante, mentre la collaborazione con l’Università degli Studi di Milano sta orientando le nostre scelte, aiutandoci a definire con rigore scientifico delle azioni mirate per affrontare dei fenomeni così complessi”. “Con Levissima proseguiamo una collaborazione sui ghiacciai della Lombardia, e non solo, attiva da 17 anni, per misurare gli effetti del cambiamento climatico sulla loro riduzione e condizioni superficiali, grazie a stazioni meteo automatiche, droni e satelliti, utili anche per ricostruzioni 3D e mappatura dei rischi ambientali. Oggi questa esperienza sostiene una nuova sfida: stimare il valore economico dei servizi ecosistemici dell’Alta Valtellina, dalle foreste alla criosfera. Un lavoro innovativo che colma un vuoto scientifico e offre dati concreti per decisioni territoriali più consapevoli", ha dichiarato Antonella Senese, Università degli Studi Milano.