INFORMAZIONIAndrea Braccaloni |
INFORMAZIONIAndrea Braccaloni |
(Adnkronos) - Nel caso in cui i dazi imposti dall’amministrazione Trump dovessero rimanere gli stessi di oggi, costerebbero all'Italia 3,5 miliardi di euro circa di mancate esportazioni. Se, invece, le tariffe doganali dovessero essere innalzate al 20%, il danno economico ammonterebbe fino a 12 miliardi di euro. Sono le stime dell'Ufficio studi della Cgia, in base alle elaborazioni fatte qualche mese fa dall’Ocse. Si tratta, specifica l'istituto, di importi che non includevano l’impatto economico di eventuali tariffe che potrebbero essere applicate su singoli prodotti merceologici. L’Italia è un Paese con una forte vocazione all’export verso gli Usa (nel 2024 la dimensione economica è stata pari a 64,7 miliardi di euro) e in attesa che il presidente Trump ufficializzi l’intensità dei dazi, le cifre richiamate più sopra dovranno misurarsi, indica la Cgia nella sua analisi, con i seguenti interrogativi: i consumatori e le imprese statunitensi sostituiranno i beni finali e intermedi italiani con quelli autoctoni o di altri Paesi, oppure continueranno ad acquistare prodotti Made in Italy? A seguito delle nuove barriere doganali, le imprese esportatrici italiane riusciranno a non aumentare i prezzi di vendita negli Usa, contenendo i margini di profitto? Sono domande a cui non è per nulla facile dare una risposta, scrive la Cgia. Tuttavia, la Banca d’Italia ricorda che il 43 per cento delle nostre esportazioni verso gli Stati Uniti sono costituite da prodotti di qualità alta e un altro 49 per cento di qualità media. Pertanto, sono prodotti che, verosimilmente, sono diretti ad acquirenti (persone fisiche o imprese) ad elevato reddito che potrebbero rimanere indifferenti ad un aumento del prezzo causato dall’introduzione di nuove barriere doganali. In merito al secondo interrogativo, invece, i ricercatori di via Nazionale segnalano che il potenziale calo della domanda statunitense legato all’incremento dei prezzi dei prodotti finali potrebbe essere assorbito dalle nostre imprese attraverso una contrazione dei propri margini di profitto. A tal proposito va segnalato che le aziende italiane che esportano negli Usa presentano una incidenza delle vendite in questo mercato 'solo' del 5,5 per cento del fatturato totale, mentre il margine operativo lordo è mediamente pari al 10 per cento dei ricavi. In altre parole, sono poco esposte verso il mercato statunitense ed una eventuale 'chiusura' di questo mercato inciderebbe relativamente poco. Il Paese a stelle e strisce rappresenta il secondo mercato di sbocco per le esportazioni italiane, con un valore annuale che nel 2024 ha toccato i 64,7 miliardi di euro, pari al 9 per cento circa dell’intero export nazionale. In particolare, le categorie merceologiche maggiormente esportate negli Usa includono i prodotti chimici/farmaceutici, gli autoveicoli, le navi/imbarcazioni e le macchine di impiego generale. Tali voci incidono per oltre il 40 per cento delle vendite totali nel mercato statunitense. Il numero degli operatori commerciali italiani attivi negli Stati Uniti è relativamente contenuto, ammontando a poco meno di 44mila unità; a questo dato si devono aggiungere le imprese dell'indotto non contabilizzate nelle statistiche Istat. I dazi voluti dall’amministrazione Trump potrebbero penalizzare, in particolare, le esportazioni del Mezzogiorno. A differenza del resto del Paese, infatti, la quasi totalità delle regioni del Sud presenta una bassa diversificazione dei prodotti venduti nei mercati esteri. Pertanto, se dopo l’acciaio, l’alluminio e i loro derivati, gli autoveicoli e la componentistica auto gli Usa e, a catena, altri Paesi del mondo, decidessero di innalzare le barriere commerciali anche ad altri beni, gli effetti negativi per il nostro sistema produttivo potrebbero abbattersi maggiormente nei territori dove la dimensione economica dell’export è fortemente condizionata da pochi settori merceologici. L’analisi realizzata dall’Ufficio studi della Cgia si fonda sulla misurazione dell’indice di diversificazione di prodotto dell’export per regione; parametro che pesa il valore economico delle esportazioni dei primi 10 gruppi merceologici sul totale regionale delle vendite all’estero. Laddove l’indice di diversificazione è meno elevato, tanto più l’export regionale è differenziato, risultando così meno sensibile a eventuali sconvolgimenti nel commercio internazionale. Diversamente, tanto più è elevata l’incidenza del valore dei primi 10 prodotti esportati sulle vendite all’estero complessive, quel territorio risulta essere più esposto alle potenziali congiunture negative del commercio internazionale. La regione che a livello nazionale presenta l’indice di diversificazione peggiore è la Sardegna (95,6 per cento), dove domina l’export dei prodotti derivanti della raffinazione del petrolio. Seguono il Molise (86,9 per cento), caratterizzato da un peso particolarmente elevato della vendita dei prodotti chimici/materie plastiche e gomma, autoveicoli e prodotti da forno, e la Sicilia (85 per cento), che presenta una forte vocazione nella raffinazione dei prodotti petroliferi. Tra le realtà territoriali del Mezzogiorno, solo la Puglia presenta un livello di diversificazione elevato (49,8 per cento). Un dato che la colloca al terzo posto a livello nazionale tra le regioni potenzialmente meno a rischio da un’eventuale estensione dei dazi ad altri prodotti merceologici. Ad eccezione della Puglia, le aree geografiche teoricamente meno in pericolo sono tutte del Nord. La Lombardia (con un indice del 43 per cento) è ipoteticamente la meno a “rischio”. Seguono il Veneto (46,8), la Puglia (49,8), il Trentino Alto Adige (51,1), l’Emilia Romagna (53,9) e il Piemonte (54,8). La Città Metropolitana di Milano è l’area geografica del Paese che esporta di più verso gli Stati Uniti: nel 2024 le vendite hanno toccato i 6,35 miliardi di euro. Seguono Firenze con 6,17, Modena con 3,1, Bologna con 2,6 e Torino con 2,5. Tutte assieme queste cinque realtà territoriali esportano quasi un terzo del totale nazionale delle merci destinate negli Usa.
(Adnkronos) - “Il sistema di formazione professionale è largamente sottoutilizzato dalle persone e dalle imprese. C'è una perdita di grandi opportunità, sia economiche sia di implementazione del capitale umano delle aziende. E’ un sistema che va migliorato e va promosso mettendo a fattor comune le migliori competenze di operatori privati e di soggetti pubblici”. Così Agostino Di Maio, neoeletto presidente di Assolavoro Formazione, intervenendo durante l’Assemblea pubblica di Assolavoro Formazione, oggi a Milano. L’incontro ha offerto l’occasione per analizzare i dati della ricerca 'Il mercato dei servizi per la formazione in Italia' condotta da Assolavoro DataLab, l’Osservatorio dell’Associazione nazionale delle agenzie per il lavoro, da cui emerge che il potenziale di crescita del settore è enorme: il mercato della formazione professionale per adulti ha generato nel 2022 un fatturato di oltre 3,2 miliardi di euro. “La formazione professionale nel mondo del lavoro - riflette Di Maio - è il vertice di una piramide rovesciata sul quale poggia tutto il mercato del lavoro. E’ fondamentale per l'aggiornamento delle competenze, per l’upskilling e il reskilling, per la riduzione delle transazioni, per il rapporto con la scuola e per la gestione delle pratiche fragili dei lavoratori, oltre che per ridurre il tasso di inattività, la vera piaga del nostro mercato del lavoro. La formazione serve sempre, in ogni fase, e oggi in Italia ci sono ampi margini di miglioramento”. Dall'incontro emerge una frammentarietà regionale quando si parla di formazione professionale. Un aspetto dovuto a “un'impostazione costituzionale che nell'attribuire alle Regioni la competenza esclusiva in materia di formazione professionale non favorisce l'adozione di standard uguali sul territorio nazionale", spiega Di Maio, che aggiunge: "Su questo lavoriamo proficuamente con molte Regioni e cerchiamo di condividere le buone pratiche. È un lavoro molto faticoso che potrebbe essere svolto con più efficacia”. Infine, il neoeletto presidente esprime la sua visione di Assolavoro Formazione, “un'associazione che raccoglie i migliori player sul mercato”. “La nostra formazione è orientata al placement. Il nostro contratto collettivo prevede che almeno il 35% dei discenti trovino un lavoro e riteniamo che il placement sia un elemento di qualità e di misurazione dell'efficacia della formazione, che dovrebbe essere anche estesa ad altri contesti”, conclude.
(Adnkronos) - “I treni sono mezzi di trasporto già sostenibili, ma abbiamo voluto vivere la sostenibilità in maniera ancora più incisiva, ideando treni che consumino meno energia e sfruttando materiali riciclabili”. Così Maria Giaconia, direttore operations Regionale di Trenitalia, alla presentazione della terza edizione di ‘Eco Festival della mobilità sostenibile e delle città intelligenti’ che si svolgerà il 16 e 17 settembre 2025 nel Centro Congressi di Piazza di Spagna. L’appuntamento è pensato per fare il punto sullo stato dell’arte della transizione ecologica nella mobilità delle persone e delle merci nel nostro Paese. Lo stesso approccio, ossia di rendere ancora più green qualcosa già di per sé sostenibile, Trenitalia lo applica ai treni che prevedevano l’impiego anche di carburante diesel, come spiega Giaconia: “Sono stati ripensati così che possano utilizzare biocarburante. Lavoriamo non solo sulla sostenibilità ambientale, ma anche su quella sociale. I nostri nuovi treni infatti devono essere la risposta alle città del futuro, perché muoversi meglio significa vivere meglio. Abbiamo ripensato l’accessibilità dei treni, abbiamo lavorato anche sulla digitalizzazione, per fare in modo che le persone scelgano sempre più spesso il mezzo pubblico piuttosto che l’auto privata”. Un altro aspetto importante è quello dell’intermodalità, per fare ‘l’ultimo miglio’: “La stazione non sempre è in centro città e” per aiutare i viaggiatori a raggiungere la loro destinazione con i mezzi pubblici “abbiamo progettato, insieme agli operatori del Tpl, la combinazione treno e bus, acquistabile sulle nostre piattaforme. Abbiamo oltre 200 collegamenti che ci permettono di accedere ai posti più belli. Sostenibilità è anche permettere a tutti di arrivare in modo capillare ovunque, anche in quelle destinazioni un po’ meno battute”. “L’Eco Festival per noi è un appuntamento importante perché è un luogo per il confronto di idee e progetti necessari per un cambiamento verso la sostenibilità. Non siamo qui soltanto perché siamo operatori di trasporto pubblico ferroviario - puntualizza in conclusione Giaconia - ma perché ci crediamo fortemente. Per questo abbiamo voluto condividere questa partnership con l’Eco Festival”.