INFORMAZIONIRossana AndreiniChi è: Editore di ZeroUno e www.zerounoweb.it Copyright 2012 © Next Editore S.r.l. |
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(Adnkronos) - Caccia a 26 milioni (circa) di votanti. E' un lavoro 'sporco' ma è quello che sono chiamati a fare i promotori dei referendum dell'8 e 9 giugno, quando gli italiani sono chiamati ad esprimersi sui quattro quesiti sul lavoro e su quello sulla cittadinanza. Per la Costituzione, infatti, essendo di tipo abrogativo questi referendum devono ottenere il quorum per essere validi: deve cioè votare il 50% più uno degli aventi diritto, che in Italia sono circa 51 milioni. E a guardare la storia referendaria i promotori Cgil e Comitato per la cittadinanza devono lavorare sodo (e incrociare le dita). In Italia si sono svolti sino ad oggi 72 referendum abrogativi e con i prossimi si arriverà a quota 77. In assoluto, comprendendo quindi tutti i tipi di voto referendario, gli italiani sono stati chiamati a esprimersi per 78 volte. Con la tornata del prossimo giugno si toccherà quindi quota 83 a partire dalla storica scelta tra monarchia e Repubblica del 2 giugno 1946, un referendum non di tipo abrogativo. Il primo quesito di questo tipo è anche il più famoso, quello del maggio '74 sul divorzio, quando il mondo cattolico si rivolse agli italiani per chiedere se volevano o no la legge Fortuna-Baslini, in vigore dal dicembre del '70. Il referendum, come è noto, nacque proprio 'grazie' a quella legge come una sorta di risarcimento alla Dc che aveva subito lo smacco dell'approvazione di un provvedimento cui era fortemente contraria. Storia a parte, il quorum è la spada di Damocle per tutti i referendum abrogativi. Su 72 quesiti di questo tipo in Italia in 39 casi si è raggiunto il quorum e per 33 volte no. Per gli amanti della statistica nei 39 casi in cui è stato centrato il quorum per 23 volte ha vinto il sì e per 16 casi il no. Questo però dice relativamente poco su vincitori e vinti. Nel caso del divorzio, per esempio, a promuovere il referendum era stato un 'cartello' di stampo cattolico che con il no venne sconfitto, con la legge Fortuna che rimase in vigore. Indicativo è il trend del quorum. Dal divorzio ('74) al 1995 (privatizzazione Rai il più famoso tra i quesiti) la soglia richiesta dalla legge è stata sempre raggiunta con una sola eccezione: il 1990 (caccia), quando l'affluenza si fermò tra il 42 e il 43%. Una striscia positiva portata a casa nonostante il celebre 'andate al mare' di Bettino Craxi, che nel '91 non riuscì a fermare l'onda sollevata dai quesiti proposti da Mario Segni sulla preferenza unica, passati con il 95,6% dei sì e una affluenza del 62,5%. Dalla privatizzazione Rai, quindi negli ultimi 30 anni, il segno del quorum è andato in senso diametralmente opposto: dal 1997 (carriere dei magistrati tra i referendum di allora) al 2022 (Csm, tra gli altri) il mal di quorum si è diffuso stabilmente e nessun referendum abrogativo ha avuto validità. Con una sola eccezione: il quesito del 2011 sull'acqua pubblica che ebbe una affluenza del 54,8%. In termini assoluti invece, nel Guinness dei primati dell'affluenza bisogna iscrivere il referendum sul divorzio con il suo 87,7%. Nella top five dell'affluenza figurano poi, nell'ordine, il quesito del 1978 (finanziamento pubblico ai partiti) con l'81,2%, quello del 1981 (leggi anti terrorismo e aborto) con il 79,4%, quello dell'85 (scala mobile) con il 77,9% e quello del 1993 (finanziamento ai partiti, tra gli altri) con il 77%. Al contrario, Cenerentola dell'affluenza sono invece i quesiti del 2022 (Csm e magistrati), ultimo referendum sin qui celebrato e fermo a quota 20%. A seguire nel 2009 (premio di maggioranza, tra gli altri) affluenza al 23,3%, nel 2003 (art 18) e nel 2005 (Gpa) tutte e due le volte al 25,5 e nel 1997 al 30,2%.
(Adnkronos) - “Gli scenari della sicurezza stanno cambiando soprattutto se seguiamo il panorama internazionale. Come ha detto il presidente del Consiglio, se dobbiamo decidere il nostro futuro dobbiamo pensare alla sicurezza. Da questo spunto dico che la vigilanza privata potrebbe essere un supporto con guardie giurate che possono assolvere compiti di sicurezza in un sistema di partenariato pubblico-privato. Ci sarebbe bisogno di un tavolo unito per poter dare la giusta qualificazione alle guardie giurate che potrebbero dare il loro contributo al fianco delle forze dell’ordine diventando un braccio operativo come già succede in porti e aeroporti”. A dirlo è Giulio Gravina, presidente reparto sicurezza urbana Remind, in occasione dell’evento Nazione Sicura 2025 promosso da Remind, presso Palazzo Ferrajoli a Roma. Una collaborazione tra pubblico e privato che potrebbe risultare utile anche nell’operazione 'Strade sicure' dell’esercito italiano: “Inizialmente - spiega Gravina - i soldati per strada veniva quasi percepiti con paura oggi, invece, sono visto come un patrimonio, un punto di riferimento e di forza per la sicurezza sul territorio. Penso che in alcuni punti, non i più critici, le guardie giurate potrebbero sostituire l’esercito nell’operazione 'Strade sicure'. La cosa potrebbe essere interessante per lo Stato anche dal punto di vista economico perché una guardia giurata ha un costo inferiore rispetto a un soldato e rappresentare un ulteriore punto di forza”. Un percorso che potrebbe essere importante anche per le stesse guardie giurate come specifica Gravina: “Vedo che le guardie giurate amano la divisa e un domani potrebbero diventare un valore aggiunto per le forze dell’ordine e per l’esercito sempre in quel processo di integrazione tra pubblico e privato. Importante però è la qualifica più che la discussione tra guardia giurata armata e non armata. La guardia giurata negli aeroporti non è armata però è qualificata. Quando invece si parla di steward, queste persone non hanno controllo da parte delle forze dell'ordine sia all'assunzione che nel evolversi negli anni nel lavoro; al contrario la guardia giurata ogni anno deve rinnovare tutta una serie di verifiche fiduciarie e avere requisiti al pari del poliziotto o del Carabiniere”.
(Adnkronos) - Cresce la desertificazione oceanica a causa del riscaldamento globale. In poco più di vent’anni è quasi raddoppiata l’area delle regioni oceaniche già povere di nutrienti e con scarsa biodiversità, passando dal 2,4 al 4,5% dell’oceano globale. Si tratta di un fenomeno che comporta una grave carenza di nutrienti e che potrebbe avere conseguenze significative sulla salute degli oceani e sul clima globale. È questo uno dei principali risultati emersi da uno studio internazionale condotto dal Laboratorio Enea Modelli e Servizi Climatici, in collaborazione con l’Istituto di Scienze Marine Ismar-Cnr e il laboratorio cinese State Key Laboratory of Satellite Ocean Environment Dynamics (Soed), pubblicato sulla rivista scientifica ‘Geophysical Research Letters’. Lo studio si concentra, in particolare, sull’analisi dei cambiamenti del fitoplancton, l’insieme di quei microrganismi che sono alla base della catena alimentare marina (sono il cibo di zooplancton, pesci e altri organismi) e contribuiscono a mitigare i cambiamenti climatici rimuovendo la CO2 atmosferica attraverso la loro attività fotosintetica. “Questo fenomeno risulta molto evidente nell’Oceano Pacifico settentrionale dove la superficie coinvolta cresce a un ritmo di 70mila km2 l’anno. Ma la desertificazione interessa in modo crescente diverse regioni oceaniche, con una particolare vulnerabilità nelle aree tropicali e subtropicali, dove la diminuzione dei nutrienti disponibili può avere importanti impatti sulla produttività e la diversità biologica. Questo accade a causa del riscaldamento globale, che fa sì che l’acqua calda, più leggera, resti in superficie, impedendo il mescolamento con l’acqua più fredda e ricca di nutrienti che si trova in profondità. Meno mescolamento significa quindi meno ‘cibo’ che arriva alla superficie per sostenere la crescita del fitoplancton e, di conseguenza, dell’intera catena alimentare”, spiega Chiara Volta, ricercatrice Enea del Laboratorio Modelli e Servizi Climatici. Dallo studio emerge inoltre che è in diminuzione la quantità di clorofilla, un indicatore chiave della salute e della produttività del fitoplancton. In pratica, una maggiore presenza di clorofilla indica una maggiore abbondanza di fitoplancton. “Tuttavia, secondo lo studio, questo calo potrebbe non indicare una riduzione della popolazione fitoplantonica, ma un adattamento di questi organismi alle nuove condizioni di crescita imposte dal cambiamento climatico, quali ad esempio l’aumento della temperatura e la riduzione della disponibilità di nutrienti”, sottolinea la ricercatrice di Enea. Per realizzare questo studio i ricercatori hanno esaminato le serie temporali di dati satellitari di clorofilla e di fitoplancton tra il 1998 e il 2022 nei cinque principali vortici oceanici della Terra (gyres subtropicali) situati nell’Atlantico settentrionale e meridionale, nel Pacifico settentrionale e meridionale e nell’Oceano Indiano. Si tratta di sistemi di correnti caratterizzati da un movimento anticiclonico dell’acqua che si sviluppano tra l’Equatore e le zone subtropicali di alta pressione, e la cui formazione dipende da una complessa interazione tra venti, rotazione terrestre e distribuzione delle terre emerse. “Negli ultimi due decenni, in concomitanza con il riscaldamento degli oceani, molti studi satellitari hanno documentato un’espansione di questi sistemi oceanici e una conseguente riduzione di clorofilla, destando serie preoccupazioni sulle possibili implicazioni per il clima globale e la salute dei nostri oceani. Tuttavia, i nostri risultati mostrano che, nonostante la diminuzione della clorofilla osservata nella zona più povera di nutrienti dei vortici subtropicali, la biomassa fitoplantonica è rimasta sostanzialmente stabile nel tempo. Tenuto conto che, per loro natura, i dati satellitari si limitano a fornire una descrizione di ciò che avviene sulla superficie oceanica, i prossimi passi da compiere saranno quelli di studiare i cambiamenti della comunità fitoplantonica lungo la colonna d’acqua e quantificare il loro impatto sulla produttività oceanica a scala regionale e globale”, conclude Chiara Volta.