2014: un anno decisivo
Il silenzio davvero inquietante che da qualche tempo sembra avvolgere la comunicazione pubblica mi induce non a lanciare l'ennesimo lamento contro atteggiamenti di Istituzioni e Associazioni che suonano sempre come condanne definitive per una disciplina che, al contrario, dovrebbe rappresentare una componente decisiva di ogni vero cambiamento.
Credo invece che questo sia il tempo per alcune riflessioni non più
rinviabili.
Dopo anni in cui poco si è fatto per la comunicazione pubblica, ma molto
se ne è parlato, cosa preannunciano i vistosi cali di matricole nelle
università italiane?
Libero ognuno di definire questo fenomeno come meglio crede, ma io penso che
questa diminuzione rappresenti un segnale pericoloso, un preludio di tempi difficili.
Così come negli anni passati abbiamo ritenuto inspiegabili gli oltre
80 mila iscritti alle facoltà di scienze della comunicazione (nessun
Paese serio potrebbe reggere il peso di 80 mila piccoli Umberto Eco), oggi,
di fronte a questa inversione di tendenza, non possiamo sbrigativamente inventare
la solita formuletta che alla fine accontenta un po' tutti. Dobbiamo invece
prendere atto che è giunto il tempo di un fermo ripensamento.
Gli oltre 80 mila iscritti sono un lusso inspiegabile per un Paese dove, alla
fine, la comunicazione pubblica è considerata come quella che deve fare
arrivare sui giornali l'immagine dei nostri amministratori.
Si dirà che siamo di fronte a culture diverse che non si prestano ad
un confronto. Verissimo. Ma chi avrebbe dovuto porvi ordine in modo che, dopo
la legge 150 del 2000, non ci si limitasse a soffocare la comunicazione ma venisse
incanalata in un percorso accademico fatto di regole certe e di passaggi coerenti?
In realtà in Italia si continua a parlare di comunicazione pubblica,
ma tutt'al più si pensa alla comunicazione politica. Verissimo anche
questo. Ma allora perché non stabilire percorsi logici coerenti per chi
affronta esami e prove nelle nostre università?
Insomma da qualsiasi parte la si prenda oggi il problema dei problemi è
e rimane quello del riconoscimento professionale. Per questo motivo l'attuale
silenzio sembra così rumoroso.
Qualcuno ha dichiarato guerra alla burocrazia, ma si è dimenticato di
indicarci dove e come avverrà questo epico scontro che ha visto soccombere
persino il regime fascista che preferì averla complice piuttosto che
combatterla.
Ma se guerra deve essere, servono una logica e una coerenza.
Una guerra prevede obiettivi e fasi diverse. Se tutto questo suonare di trombe
e rullare di tamburi dovesse concludersi, tanto per fare un esempio, come accadde
per gli sportelli unici che negli anni 80 percorsero l'intero apparato senza
alcun risultato accettabile, allora saremmo di fronte alla solita storiella.
Battere la burocrazia non avverrà né in una notte né in
un giorno, ma saranno un impegno e un lavoro lunghi e difficili. Soprattutto
per chi verrà arruolato nell'armata dei cosiddettisex mother and daughter innovatori (da tempo
messa in silenzio dal semplice annuncio di tagli ai servizi e riduzioni dei
bilanci).
A chi pensasse che tutto potrà risolversi in una magica formuletta da
inserire nell'ennesima circolare ministeriale consiglio la lettura di alcuni
seri testi sulla burocrazia.
La burocrazia, dal greco “potere degli uffici”, non si sconfigge
né si abbatte, ma la si può piegare a una reale volontà
di cambiamento.
Questo è l'obiettivo che dobbiamo porci. I comunicatori pubblici, per
quanto potranno, sono pronti a fare del 2014 l'anno del riconoscimento professionale.
Gli altri che cosa dicono, ma soprattutto che cosa fanno?