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(Adnkronos) - L'Ue si è rassegnata a capitolare davanti a Donald Trump accettando un accordo ineguale, sbilanciato, molto vantaggioso per gli Usa, che prevede l'imposizione di dazi del 15% su gran parte delle importazioni dall'Europa, senza che l'Unione possa rispondere con la stessa moneta. Ma l'alternativa sarebbe stata peggiore. Così il commissario europeo al Commercio Maros Sefcovic, ha difeso a Bruxelles l'intesa che ha negoziato per mesi con le controparti Howard Lutnick e Jamieson Greer. L'accordo, ha detto, è meglio dell'alternativa, una guerra commerciale con gli Usa che sarebbe costata centinaia di migliaia, se non milioni, di posti di lavoro. "Anche se so che per alcuni un potenziale altro tipo di risultato può sembrare molto allettante ora - ha affermato - non hanno considerato tutti i numeri, tutte le conseguenze, tutto l'impatto che avrebbe su ogni settore. Noi lo abbiamo fatto e quindi, con piena consapevolezza, sono sicuro al 100% che questo accordo è migliore di una guerra commerciale con gli Stati Uniti". "Se qualcuno - ha aggiunto - crede ancora che possiamo ritornare alla situazione precedente al 2 aprile", quando Trump annunciò una sventagliata di dazi nei confronti di molti Paesi nel cosiddetto 'Liberation Day', per Sefcovic si illude. "E' piuttosto ovvio - ha continuato - che il mondo che c'era prima del 2 aprile ormai è andato: semplicemente, dobbiamo adattarci" alla nuova realtà e "affrontare le sfide che derivano da questo nuovo approccio" degli Usa. Il commissario slovacco ha poi spiegato che a suo parere l'accordo, che prevede l'imposizione di dazi al 15% tutto compreso su circa il 70% delle merci europee importate negli Usa, è il migliore possibile nelle condizioni date, non semplici per l'Unione. "Questo - ha detto infatti - è chiaramente il miglior accordo che potessimo ottenere, in circostanze molto difficili. Voi non eravate presenti in sala ma, se foste stati presenti ieri, avreste visto che abbiamo iniziato con il 30%". Vale a dire che a partire dal "primo agosto" sarebbe stata applicata dagli Usa "una tariffa del 30% sulle nostre esportazioni, il che, praticamente, avrebbe bloccato tutto il commercio" tra le due sponde dell'Atlantico. Con l'accordo siglato domenica, invece, "i flussi commerciali salveranno i posti di lavoro in Europa e apriranno un nuovo capitolo nelle relazioni con gli Stati Uniti,", con i quali si discuterà "su come adattare i nostri modelli commerciali reciproci, in questa nuova era di geoeconomia e geopolitica". Si tratta di "una risposta politica molto importante, perché non riguarda solo il commercio: riguarda la sicurezza, riguarda l'Ucraina, riguarda l'attuale volatilità geopolitica. Non posso entrare nei dettagli di ciò che è stato discusso ieri, ma posso assicurare che non riguardava solo il commercio". Insomma, per l'Ue sganciarsi dagli Stati Uniti non è pensabile. Non oggi. Anche perché l'altro teorico potenziale partner non è un 'cliente' dei più semplici: la lista dei "problemi" che costellano le relazioni commerciali tra Ue e Cina, anziché accorciarsi, "si allunga", ha detto Sefcovic. Pertanto, con la guerra in Ucraina che continua da oltre tre anni e la Russia di Vladimir Putin che si sta riarmando, l'Ue non ha potuto fare altro che chinare il capo e accettare un accordo sbilanciato, che Ursula von der Leyen ha accettato di siglare a Turnberry, un villaggio della costa sudoccidentale della Scozia dove Donald Trump possiede un lussuoso golf resort. Dunque, l'argomento che la Commissione usa per difendere la scelta di chiudere l'accordo, peraltro supportata dalla maggior parte degli Stati membri che non volevano assolutamente ingaggiare un braccio di ferro con gli States (ad eccezione della Francia, che ha tradizionalmente una visione geopolitica più spiccata rispetto ai partner europei), è quello di paragonare l'intesa non alla situazione precedente il 'Liberation Day', che "non tornerà più", ma alla situazione attuale. Che è la seguente: oggi negli Usa ci sono tre tipi di dazi sulle merci importate dall'Ue. C'è un dazio del 10%, con in aggiunta l'aliquota derivante dalla clausola della nazione più favorita (Mfn in gergo comunitario), in media del 4,8%. In pratica, viene applicato quasi il 15% sulla maggior parte delle merci provenienti dall'Ue. Ci sono poi dazi settoriali sulle automobili e sulle parti di automobili, che sono al 25%, cui va aggiunta la tariffa Mfn, al 2,5%, quindi in tutto 27,5%. Infine, ci sono i dazi su acciaio, alluminio e prodotti derivati, che sono al 50%, più la tariffa Mfn, che varia a seconda del prodotto, ma che è generalmente piuttosto bassa. Queste tre categorie di dazi colpiscono circa il 70% delle esportazioni dall'Ue verso gli Usa, in tutto circa 380 miliardi di euro in valore. Il restante 30% dell'export Ue verso gli Usa non è sottoposto a dazio, inclusi i farmaci e i semiconduttori, sui quali attualmente il dazio è zero. Il prossimo primo agosto, alla fine di questa settimana lavorativa, la situazione dovrebbe essere la seguente: dazi Usa a tappeto, unilaterali (cioé senza dazio analogo Ue sull'import dagli Usa), del 15%, inclusa la tariffa Mfn. Questi dazi si applicheranno alle merci attualmente 'daziate', quindi anche alle auto (che stanno molto a cuore alla Germania), ma non ad acciaio e alluminio, sui quali l'amministrazione Trump ha in corso una indagine basata sull'articolo 232 del Trade Expansion Act del 1962 e vuole tenersi le "mani libere", come ha spiegato un alto funzionario Ue. Tuttavia, secondo la stessa fonte fa parte dell'intesa l'accordo che, se gli Usa decideranno di applicare dazi sui farmaci che importano dall'Ue, questi non saranno superiori al 15%. Idem dicasi per i microprocessori. Per quanto riguarda l'acciaio, base dell'industria, von der Leyen e Trump ieri hanno concordato che verrà istituito un sistema di quote di importazione, legate ai "livelli storici" degli scambi commerciali, quote alle quali dovrebbe essere applicato il dazio Mfn. Per le importazioni negli Usa di acciaio prodotto nell'Ue che supereranno le quote, dovrebbe scattare un dazio del "50%", ma di tutto questo devono ancora essere negoziati "i dettagli". Von der Leyen e Trump, nell'incontro di domenica in Scozia, non si sono dedicati ai dettagli dei dazi sull'acciaio, perché si tratta di una materia che viene risolta a livelli inferiori, ministeriale o tecnico. La questione è anche legata all'intesa che l'Ue e gli Stati Uniti "uniranno le forze per affrontare le fonti di sovraccapacità", collaborando per affrontare la "sovraccapacità globale". Come d'uso nel linguaggio Ue, si nomina il peccato, e non il peccatore, che in questo caso è la Cina. L'Unione, inoltre, ha acconsentito ad azzerare i dazi, già molto bassi, su una serie di prodotti americani: si tratta, per esempio, della frutta a guscio importata dagli Usa nell'Ue e del prolungamento dell'accordo sulle aragoste, il Lobster Deal, raggiunto nel 2020, un mini-accordo commerciale che prevede l'azzeramento dei dazi sui crostacei importati dagli Usa nell'Ue, in cambio della riduzione dei dazi Usa su alcuni prodotti europei. L'elenco comprenderà anche "alcuni pesci lavorati", e alcuni tipi di "pesce crudo". Si tratta anche di "formaggi, alcuni latticini, cibo per animali domestici". Anche per le auto americane importate nell'Ue, per le quali l'Unione aveva concordato di scendere alla tariffa della nazione più favorita, pari al 2,5%, a Bruxelles "siamo pronti ad andare a zero", come pure per alcuni macchinari, per alcuni prodotti chimici e per i fertilizzanti. Per contro, gli Stati Uniti hanno riconosciuto di non poter fare a meno delle esportazioni dell'Ue in una serie di casi. E' per questo che si parla di dazi zero per certi dispositivi medici e di certi prodotti farmaceutici importati negli Usa dall'Ue. L'esenzione dovrebbe riguardare anche altri prodotti, le risorse naturali non disponibili, cose che negli Stati Uniti non hanno. Per esempio, il sughero, per il quale gli Usa dipendono dalle importazioni dall'Europa. Ci sono poi alcune "esenzioni settoriali". E, in questo ambito, "la più importante" finora ottenuta dall'Ue riguarda "gli aeromobili e i ricambi aeronautici", che "sarà parte della dichiarazione congiunta". Ci sono "discussioni ancora in corso", perché le trattative con gli Stati Uniti "non si fermano qui". Stanno solo entrando in una "nuova fase". Non c'è accordo, invece, sull'azzeramento dei dazi su vini e superalcolici. Le discussioni sono ancora "in corso", secondo fonti Ue, ma le cose sono più "avanzate" sui superalcolici che sui vini. L'accordo che l'Ue ha accettato è svantaggioso per le imprese europee, ma va valutato, come ha spiegato Sefcovic, in un quadro più ampio: gli Usa sono tuttora essenziali per la sicurezza europea. A parziale consolazione, fonti Ue hanno chiarito che i 750 miliardi di euro di acquisti di energia dagli Usa promessi in tre anni di cui si è parlato domenica scorsa sono una stima, sia pure non "campata in aria", perché a comprare gas, petrolio e uranio dagli Usa sono le imprese private, non l'Ue. Sefcovic ha chiarito che l'Ue del Green Deal, oltre a Gnl e petrolio americani, comprerà dagli Usa anche uranio, necessario per il "rinascimento nucleare" in corso nell'Ue, nonché "microprocessori avanzati" per lo sviluppo dell'intelligenza artificiale. Ma, visto che l'Ue non è la Cina, le decisioni di investimento spettano alle imprese private (anche se non poche sono controllate o comunque influenzate dagli Stati). Un discorso simile vale per i 600 miliardi di investimenti europei negli Usa annunciati da Trump: anche in questo caso, sono stime, non impegni vincolanti, perché gli investimenti oltreoceano vengono decisi ed effettuati dalle imprese private. Non è, insomma, una cosa che "l'Ue può garantire". Inoltre, hanno puntualizzato le stesse fonti, non c'è alcun impegno né cifra dell'Ue sull'acquisto di armamenti dagli Usa, perché "non è competenza della Commissione". Le parole dette da Trump, secondo fonti Ue, riflettono le sue attese, certo comunque fondate dopo gli impegni presi all'Aja dagli alleati Nato di portare la spesa per la difesa al 3,5% del Pil entro il 2035, più un 1,5% per la sicurezza. Insomma, dopo mesi di trattative l'Ue, messa alle strette, ha firmato un patto ineguale, penalizzante per le sue imprese, perché l'alternativa, a giudizio dei vertici comunitari (e della maggior parte degli Stati), sarebbe stata ben peggiore. L'intesa stretta ieri in Scozia si tradurrà in una dichiarazione, giuridicamente non vincolante, che dovrebbe essere pubblicata venerdì prossimo. Sempre dal primo agosto negli Usa scatteranno dunque dazi al 15% (cui va aggiunta la svalutazione del dollaro, che penalizza ulteriormente i prodotti Ue rispetto a quelli americani), ma almeno per le imprese che esportano negli States sarà finita l'incertezza, che rende impossibile programmare gli investimenti.
(Adnkronos) - Il prossimo 1° agosto rischia di segnare una data che potrebbe cambiare radicalmente l’equilibrio commerciale tra Europa e Stati Uniti: il presidente Trump ha annunciato l’introduzione di dazi del 30% su tutti i prodotti importati dall’Unione Europea. Si tratta di una misura che colpisce duramente l’export italiano proprio verso il suo principale mercato extra-Ue. Per molte imprese italiane il mercato statunitense non è solo un canale di vendita: è un vero e proprio hub operativo, con stabilimenti produttivi, reti distributive locali e trading companies controllate dalla casa madre. È in questo contesto che assume un ruolo chiave una figura spesso trascurata nella riflessione strategica, ma centrale nell’operatività quotidiana: il manager espatriato. "Nel linguaggio della geopolitica commerciale, i dazi sono spesso letti come cifre, grafici, percentuali. Ma dietro ogni percentuale c’è un ciclo produttivo da riorientare, una filiera logistica da riadattare, un prezzo da ricalibrare. E, soprattutto, persone chiamate a gestire l’impatto di questi stravolgimenti: manager e team locali, che operano in loco o controllano una regione più ampia basandosi presso la casa madre, ma in continuo e perenne movimento nella regione medesima attraverso presenze ripetute e business trip strategici. Per questo, in un momento come quello in corso, non possiamo non interrogarci sulle competenze, le responsabilità e le opportunità dei dirigenti italiani già operativi negli Stati Uniti”, spiega ad Adnkronos/Labitalia Andrea Benigni, ceo Eca Italia. Ma quante sono figure presenti negli Usa? "Non esiste in generale un censimento preciso sul numero di manager e tecnici italiani inviati stabilmente negli Usa dalle capogruppo italiane che hanno delle società controllate negli Stati Uniti. Nel 2023, lo stock italiano di investimenti diretti negli Usa ha raggiunto 49,3 miliardi dollari statunitensi, con flussi netti pari a 1,09 miliardi dollari (Fonte Ambasciata Italiana Washington). Considerando una rete di circa 3.150 filiali italiane, ciascuna con una media di 80 dipendenti, e ipotizzando che tra il 12 % e il 18 % siano figure manageriali o specialistiche, possiamo stimare con prudenza che i manager e i tecnici italiani impegnati in assegnazione ricorrente e stabile negli Usa siano compresi in un range tra 25 e 35.000 unità, occupando ruoli che vanno dal ceo al coo, dal cfo al marketing director passando per plant manager, product manager, supply chain manager e tecnologi di prodotto”. Espatriati: non più ambasciatori, ma operatori di frontiera. “In passato si tendeva a considerare gli espatriati come figure di rappresentanza, portatori della cultura aziendale all’estero", continua Benigni. "Oggi, come emerge chiaramente anche da una recente analisi McKinsey sul 'beyond expats', questi manager devono essere molto di più: operatori di frontiera, capaci di leggere i segnali del mercato americano in tempo reale, influenzare le scelte locali, e dialogare efficacemente con l’headquarter in Italia. Forse mai come in questa fase è il momento di valorizzare gli espatriati quali ambasciatori interni, facilitatori del reverse knowledge transfer: far sì che ciò che imparano sul campo ritorni in azienda come patrimonio condiviso”. E i possibili dazi rappresentano una prova di maturità per il sistema Italia. “Se da un lato il dazio del 30% impone una reazione rapida e decisa, dall’altro rappresenta anche un banco di prova per la maturità organizzativa delle aziende italiane internazionalizzate. Quelle che hanno investito in una presenza solida negli Usa, stabilimenti produttivi, centri logistici, reti di vendita locali, oggi hanno strumenti per contenere i danni", prosegue il ceo di Eca Italia. "Ma non bastano le infrastrutture: servono le persone giuste al posto giusto. È in questo contesto che i manager espatriati diventano un asset cruciale: non solo per il mantenimento dell’operatività, ma per il disegno di un nuovo equilibrio strategico tra Italia e Stati Uniti. Un equilibrio che dovrà fare i conti con normative in evoluzione, consumatori più esigenti e supply chain sempre più frammentate”, continua. E Benigni sottolinea come in questo scenario complesso esiste una norma che può venire incontro alle imprese italiane. "Nel contesto attuale di incertezza geopolitica e riorganizzazione delle filiere internazionali, molte aziende italiane -spiega- con presenza diretta negli Stati Uniti stanno valutando piani di localizzazione di propri manager presso le controllate americane. In questo scenario, una disposizione spesso trascurata può rappresentare un prezioso strumento di semplificazione per i dipartimenti risorse umane: si tratta dell’articolo 7 par. 3 della Convenzione bilaterale di sicurezza sociale tra Italia e Stati Uniti. Questa norma prevede l’obbligo, in caso di assunzione di un cittadino italiano da una legal entity statunitense controllata da capitale italiano, di versamento dei contributi previdenziali in Italia, anziché negli Usa", sottolinea. "Ciò permette al professionista aziendale -continua- di non interrompere la propria anzianità contributiva nel sistema previdenziale italiano, pur lavorando stabilmente negli Stati Uniti con contratto locale. Il vantaggio è duplice: da un lato, l’azienda ha la possibilità di strutturare contratti di lavoro in linea con il mercato del lavoro americano, semplificando la compliance locale e potendo far leva su un mercato salariale estremamente incentivante, dall’altro il lavoratore può essere più sereno nell’accettare un incarico estero, sapendo di non compromettere la propria posizione previdenziale in Italia", conclude. “Oggi più che mai - chiosa Benigni - sono i manager italiani negli Usa a rappresentare la continuità, la visione e la capacità di adattamento del nostro tessuto industriale. Investire su di loro, nella selezione, nella formazione, nel supporto, significa costruire anticorpi robusti contro le turbolenze del commercio globale”.
(Adnkronos) - “Iren è una società all'avanguardia in termini di innovazione e sostenibilità, molto radicata sul territorio. Il ritorno in Italia con il suo programma Emtn di 5 miliardi ci inorgoglisce. Si inserisce all'interno della nostra iniziativa di rimpatrio degli emittenti obbligazionari su borsa italiana”. A dirlo Maurizio Pastore, responsabile della quotazione debito e fondi per il gruppo Euronext, in occasione della ‘Ring the Bell Ceremony’ organizzata a Palazzo Mezzanotte da Iren. È stata l’occasione per celebrare la costituzione del nuovo Programma Emtn (Euro Medium Term Notes). Iren ha rinnovato il proprio Programma incrementando l’ammontare massimo da 4 a 5 miliardi di euro. Il Prospetto informativo relativo al Programma è stato approvato da Consob e ha ottenuto il giudizio di ammissibilità alla quotazione sul Mercato telematico delle obbligazioni (Mot) da parte di Borsa Italiana. “Il mercato obbligazionario è in crescita - prosegue Pastore - c'è molta domanda da parte degli investitori e un'offerta importante anche di emittenti. Su questa base abbiamo insistito per rimettere Borsa Italiana e il mercato del capital market italiano al centro dell'attenzione”. I risultati non si sono fatti attendere: “Da novembre 2024 ad oggi, sono tornati 15 emittenti con programmi da circa 120 miliardi di cui già 9 emessi. Pertanto è importante rivitalizzare questo settore dove eravamo già forti” conclude.