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(Adnkronos) - In un’epoca in cui la comunicazione è sempre più strategica per il successo di imprese, istituzioni e organizzazioni del terzo settore, prende ufficialmente il via in Italia, a partire da settembre, il percorso di certificazione delle competenze per i comunicatori professionali. Un’iniziativa promossa da Manageritalia in collaborazione con Saa – school of management dell’università degli studi di Torino, l’unico ente universitario riconosciuto da Accredia come organismo di certificazione secondo la norma Uni 11483:2021. Questa norma definisce i requisiti per esercitare la professione del comunicatore professionale, una figura chiave nei processi organizzativi, spesso sottovalutata o confusa con ruoli affini. La certificazione rappresenta un riconoscimento formale e oggettivo delle competenze, contribuendo a definire un’identità chiara, misurabile e verificabile del professionista della comunicazione. Per Manageritalia, la certificazione delle competenze – in particolare quelle dei comunicatori – è un ulteriore tassello nella valorizzazione della professionalità, coerente con la tutela già garantita dal Contratto collettivo di lavoro per i dirigenti. Il percorso formativo necessario per accedere alla certificazione sarà lanciato a settembre da Manageritalia Executive Professional. “L’accordo tra Saa e Manageritalia è il frutto di un importante lavoro avviato anni fa e concretizzato all’interno del vertical comunicatori d’impresa istituito all’interno di Manageritalia Executive Professional ed esteso a tutti gli iscritti di Manageritalia che si collocano all’interno di questo strategico perimetro professionale, siano essi executive professional, dirigenti o quadri, a testimonianza di un’idea di managerialità estesa e diffusa a tutte le categorie dei nostri associati, a prescindere dal loro inquadramento. Un’opportunità di grande valore che apre la strada a percorsi di qualificazione e riconoscimento delle alte professionalità che si collocano nel nostro panorama manageriale” così commenta Carlo Romanelli, presidente di Manageritalia Executive Professional. "La certificazione è un elemento che aggiunge valore alle competenze, perché rappresenta una validazione terza di una professione ancora poco compresa nei suoi aspetti strategici", aggiunge Rita Palumbo, vicepresidente di Manageritalia Executive Professional. "La comunicazione è un asset di sviluppo e la certificazione contribuisce a definirne il ruolo centrale nei processi decisionali e organizzativi", conclude. Il percorso si articola su tre livelli – junior, expert e senior – in base all’esperienza e alle competenze maturate dal candidato e copre gli ambiti più rilevanti per il settore: comunicazione d’impresa, comunicazione pubblica e istituzionale, comunicazione politica, comunicazione sociale per il terzo settore. Questa iniziativa rappresenta un passaggio storico per la professione del comunicatore, che oggi potrà finalmente contare su un sistema di riconoscimento ufficiale, trasparente e condiviso. Un’opportunità concreta per valorizzare le competenze, rafforzare la credibilità della professione promuovendo trasparenza, qualità e valore nel mercato del lavoro.
(Adnkronos) - Il prossimo 1° agosto rischia di segnare una data che potrebbe cambiare radicalmente l’equilibrio commerciale tra Europa e Stati Uniti: il presidente Trump ha annunciato l’introduzione di dazi del 30% su tutti i prodotti importati dall’Unione Europea. Si tratta di una misura che colpisce duramente l’export italiano proprio verso il suo principale mercato extra-Ue. Per molte imprese italiane il mercato statunitense non è solo un canale di vendita: è un vero e proprio hub operativo, con stabilimenti produttivi, reti distributive locali e trading companies controllate dalla casa madre. È in questo contesto che assume un ruolo chiave una figura spesso trascurata nella riflessione strategica, ma centrale nell’operatività quotidiana: il manager espatriato. "Nel linguaggio della geopolitica commerciale, i dazi sono spesso letti come cifre, grafici, percentuali. Ma dietro ogni percentuale c’è un ciclo produttivo da riorientare, una filiera logistica da riadattare, un prezzo da ricalibrare. E, soprattutto, persone chiamate a gestire l’impatto di questi stravolgimenti: manager e team locali, che operano in loco o controllano una regione più ampia basandosi presso la casa madre, ma in continuo e perenne movimento nella regione medesima attraverso presenze ripetute e business trip strategici. Per questo, in un momento come quello in corso, non possiamo non interrogarci sulle competenze, le responsabilità e le opportunità dei dirigenti italiani già operativi negli Stati Uniti”, spiega ad Adnkronos/Labitalia Andrea Benigni, ceo Eca Italia. Ma quante sono figure presenti negli Usa? "Non esiste in generale un censimento preciso sul numero di manager e tecnici italiani inviati stabilmente negli Usa dalle capogruppo italiane che hanno delle società controllate negli Stati Uniti. Nel 2023, lo stock italiano di investimenti diretti negli Usa ha raggiunto 49,3 miliardi dollari statunitensi, con flussi netti pari a 1,09 miliardi dollari (Fonte Ambasciata Italiana Washington). Considerando una rete di circa 3.150 filiali italiane, ciascuna con una media di 80 dipendenti, e ipotizzando che tra il 12 % e il 18 % siano figure manageriali o specialistiche, possiamo stimare con prudenza che i manager e i tecnici italiani impegnati in assegnazione ricorrente e stabile negli Usa siano compresi in un range tra 25 e 35.000 unità, occupando ruoli che vanno dal ceo al coo, dal cfo al marketing director passando per plant manager, product manager, supply chain manager e tecnologi di prodotto”. Espatriati: non più ambasciatori, ma operatori di frontiera. “In passato si tendeva a considerare gli espatriati come figure di rappresentanza, portatori della cultura aziendale all’estero", continua Benigni. "Oggi, come emerge chiaramente anche da una recente analisi McKinsey sul 'beyond expats', questi manager devono essere molto di più: operatori di frontiera, capaci di leggere i segnali del mercato americano in tempo reale, influenzare le scelte locali, e dialogare efficacemente con l’headquarter in Italia. Forse mai come in questa fase è il momento di valorizzare gli espatriati quali ambasciatori interni, facilitatori del reverse knowledge transfer: far sì che ciò che imparano sul campo ritorni in azienda come patrimonio condiviso”. E i possibili dazi rappresentano una prova di maturità per il sistema Italia. “Se da un lato il dazio del 30% impone una reazione rapida e decisa, dall’altro rappresenta anche un banco di prova per la maturità organizzativa delle aziende italiane internazionalizzate. Quelle che hanno investito in una presenza solida negli Usa, stabilimenti produttivi, centri logistici, reti di vendita locali, oggi hanno strumenti per contenere i danni", prosegue il ceo di Eca Italia. "Ma non bastano le infrastrutture: servono le persone giuste al posto giusto. È in questo contesto che i manager espatriati diventano un asset cruciale: non solo per il mantenimento dell’operatività, ma per il disegno di un nuovo equilibrio strategico tra Italia e Stati Uniti. Un equilibrio che dovrà fare i conti con normative in evoluzione, consumatori più esigenti e supply chain sempre più frammentate”, continua. E Benigni sottolinea come in questo scenario complesso esiste una norma che può venire incontro alle imprese italiane. "Nel contesto attuale di incertezza geopolitica e riorganizzazione delle filiere internazionali, molte aziende italiane -spiega- con presenza diretta negli Stati Uniti stanno valutando piani di localizzazione di propri manager presso le controllate americane. In questo scenario, una disposizione spesso trascurata può rappresentare un prezioso strumento di semplificazione per i dipartimenti risorse umane: si tratta dell’articolo 7 par. 3 della Convenzione bilaterale di sicurezza sociale tra Italia e Stati Uniti. Questa norma prevede l’obbligo, in caso di assunzione di un cittadino italiano da una legal entity statunitense controllata da capitale italiano, di versamento dei contributi previdenziali in Italia, anziché negli Usa", sottolinea. "Ciò permette al professionista aziendale -continua- di non interrompere la propria anzianità contributiva nel sistema previdenziale italiano, pur lavorando stabilmente negli Stati Uniti con contratto locale. Il vantaggio è duplice: da un lato, l’azienda ha la possibilità di strutturare contratti di lavoro in linea con il mercato del lavoro americano, semplificando la compliance locale e potendo far leva su un mercato salariale estremamente incentivante, dall’altro il lavoratore può essere più sereno nell’accettare un incarico estero, sapendo di non compromettere la propria posizione previdenziale in Italia", conclude. “Oggi più che mai - chiosa Benigni - sono i manager italiani negli Usa a rappresentare la continuità, la visione e la capacità di adattamento del nostro tessuto industriale. Investire su di loro, nella selezione, nella formazione, nel supporto, significa costruire anticorpi robusti contro le turbolenze del commercio globale”.
(Adnkronos) - L’energia solare potrebbe presto trovare una nuova e sorprendente applicazione: il fondo del mare. Una ricerca pubblicata sulla rivista Energy & Environmental Materials ha, infatti, dimostrato che le celle solari a perovskite possono funzionare in modo efficiente anche in ambiente acquatico, aprendo la strada a tecnologie energetiche innovative per l’uso subacqueo. Lo studio è frutto della collaborazione tra il Consiglio nazionale delle ricerche – coinvolto con l’Istituto di struttura della materia (Cnr-Ism) e l’Istituto per i processi chimico-fisici (Cnr-Ipcf) - l’università di Roma Tor Vergata e la società BeDimensional Spa, leader nella produzione di materiali bidimensionali. Sotto i 50 metri di profondità, solo la luce blu-verde riesce a penetrare efficacemente: le celle solari a perovskite, già note per la loro efficienza e versatilità, si sono dimostrate particolarmente adatte a sfruttare questa luce residua. I test condotti con una specifica perovskite di composizione FAPbBr₃, hanno mostrato prestazioni sorprendenti: immerse nei primi centimetri d’acqua, queste celle producono più energia rispetto a quando sono esposte all’aria. “Merito delle caratteristiche ottiche dell’acqua e del suo effetto rinfrescante, che migliora l’efficienza del dispositivo”, spiega Jessica Barichello, ricercatrice del Cnr-Ism che ha coordinato lo studio. “Un ulteriore test di durata ha verificato anche l’aspetto ambientale: grazie all’efficace incapsulamento, basato su un adesivo polimerico idrofobico sviluppato da BeDimensional, dopo 10 giorni di immersione in acqua salata, le celle solari hanno rilasciato quantità minime di piombo, ben al di sotto dei limiti imposti per l’acqua potabile”. “Grazie alla collaborazione con il Cnr-Ism e BeDimensional e alla tecnologia disponibile nel nostro laboratorio Chose, abbiamo validato l’intero processo per l’applicazione del materiale fotovoltaico in perovskite in ambienti subacquei dove vengono sfruttate efficacemente le sue proprietà. Una nuova sperimentazione per noi - commenta Fabio Matteocci, professore associato del dipartimento di Ingegneria elettronica dell’università di Roma Tor Vergata - dal momento che il nostro studio parte dallo sviluppo di nuovi dispositivi fotovoltaici semitrasparenti tramite processi industriali facilmente scalabili per applicazione su edifici”. Oggi troviamo pannelli solari su tetti, serre, edifici, persino nello spazio, ma l’ambiente marino è ancora una frontiera poco esplorata. “Questo lavoro pionieristico non solo mostra che le perovskiti possono operare anche in condizioni umide, ma apre nuove possibilità per l’utilizzo sostenibile dello spazio subacqueo, sempre più impiegato in attività come l’agricoltura marina, l’invecchiamento del vino e altre applicazioni innovative”, conclude Barichello.