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(Adnkronos) - Molti casi di disturbi dello spettro autistico (Asd) potrebbero nascere da un'interferenza immunitaria della mamma con lo sviluppo cerebrale del feto. Lo suggerisce una ricerca italiana innovativa sull'autismo pubblicata su 'Clinical and Translational Neuroscience'. Questo studio, che secondo gli autori sta "riscrivendo le regole nella comprensione e prevenzione dell'autismo", svela "un legame cruciale tra la carenza di folati nel cervello del feto e la presenza, nel sangue materno, di specifici anticorpi chiamati Fraa (anticorpi anti-recettore del folato alfa)". La scoperta - firmata da Claudio Giorlandino, direttore scientifico dell'Istituto di ricerca Altamedica, primo autore dello studio insieme a Katia Margiotti, Marco Fabiani e Alvaro Mesoraca - per i ricercatori apre "scenari molto interessanti" sul fronte della prevenzione. "Ora sappiamo che una delle cause principali dell'autismo non genetico - spiega Giorlandino - è la mancanza di folati nel cervello del bambino durante la gravidanza. Spesso questo è causato da specifici anticorpi presenti nel sangue materno, chiamati Fraa. Immaginate i folati (vitamina B9) come il cibo essenziale per lo sviluppo del sistema nervoso del bambino, fondamentale per la costruzione del Dna e la crescita delle cellule cerebrali". "Normalmente la mamma trasferisce questi preziosi folati al feto attraverso la placenta. Il problema emerge quando gli anticorpi Fraa bloccano una sorta di porta (il recettore) che permette ai folati di entrare nel cervello del bambino. Questo crea una vera e propria carenza di folati nel cervello fetale, anche se la mamma ne ha a sufficienza nel suo sangue. Se questa carenza avviene nelle prime fasi della gravidanza, può contribuire all'insorgere di disturbi dello spettro autistico o, in forme più lievi, a problemi specifici di apprendimento (Dsa). La patologia, ben nota da anni, si chiama Cerebral Folate Deficiency". La letteratura internazionale - ricorda una nota - ha già segnalato che oltre il 70% dei bambini con autismo presenta almeno un tipo di anticorpo Fraa. Questi anticorpi sono spesso riscontrati anche nei familiari stretti, suggerendo una predisposizione. Poiché gli anticorpi materni possono raggiungere il feto già nei primi mesi di gravidanza, la loro presenza può interferire direttamente con il corretto sviluppo cerebrale. La buona notizia è che il nuovo studio apre la strada a un intervento tempestivo. E' stato sviluppato un semplice esame del sangue per la mamma, in grado di rilevare la presenza di questi anticorpi - chiariscono gli esperti - Se il test è positivo, si può intervenire con un tipo speciale di folato, l'acido folinico (calcio folinato), che ha la capacità di bypassare la 'porta bloccata' dagli anticorpi, raggiungendo il cervello del feto attraverso altre vie. Può essere assunto sia prima che durante la gravidanza per compensare la carenza, ma è necessario assicurarsi che il test Fraa dimostri che nella madre vi siano questi anticorpi. Più alta è la loro presenza, più il danno sarà rilevante. "Se identifichiamo questi anticorpi in tempo - rimarca Giorlandino - possiamo intervenire già in gravidanza con una terapia preventiva. Se aspettiamo, il danno si compie e, anche se molti recenti studi pediatrici anche randomizzati e controllati documentato un netto miglioramento con la terapia dopo la nascita, purtroppo i danni già ci sono stati e non si può avere il recupero totale. E' una svolta epocale - afferma - nella prevenzione dei disturbi dello spettro autistico, che sono molto più diffusi di altre condizioni per cui si fanno screening di routine, come la sindrome di la sindrome di Down o le infezioni in gravidanza". Lo studio ipotizza che l'aumento delle malattie autoimmuni nelle donne - influenzato da fattori come inquinamento, dieta, cosmetici e stili di vita - possa spiegare l'incremento dei casi di Fraa e, di conseguenza, dei disturbi del neurosviluppo nei bambini. Questa ricerca, concludono gli autori, "non è solo un avanzamento scientifico, ma un passo fondamentale verso un futuro in cui la prevenzione dell'autismo potrebbe diventare una realtà concreta".
(Adnkronos) - "Per quanto riguarda le imprese agricole campane, l’impatto potrebbe variare in modo significativo in base alle modalità di applicazione del dazio. Se l’imposizione riguarda il valore del prodotto alla partenza e non il prezzo finale al consumo, la ricaduta lungo la filiera potrebbe risultare più attenuata del previsto. Parliamo infatti di un comparto, quello agroalimentare, che si fonda su produzioni ad alto valore aggiunto, esito di processi di trasformazione, qualità certificata e forte legame con il territorio. Elementi che creano un significativo scarto tra il prezzo all’origine e quello finale e che possono contribuire ad ammortizzare, almeno in parte, l’effetto della misura". Così, con Adnkronos/Labitalia, Fabrizio Marzano, presidente di Confagricoltura Campania, commenta l'accordo Usa-Ue su dazi al 15% per l'export europeo. "Naturalmente, in presenza di produzioni meno strutturate, con lavorazioni minime e margini ridotti, un’imposizione del 15 per cento -continua- risulterebbe più difficile da sostenere. Ma l’agricoltura campana ha costruito negli anni un’identità solida, fondata su qualità, sicurezza alimentare e distintività, che consente oggi di affrontare con maggiore flessibilità le dinamiche del mercato internazionale". Secondo Marzano "oltre alla gestione dell’emergenza, l’introduzione di nuovi dazi apre anche un fronte strategico che va affrontato con decisione: rafforzare la capacità di esportazione del sistema agricolo nazionale. Troppe imprese, soprattutto di piccole e medie dimensioni, continuano ad affrontare i mercati esteri senza una visione strutturata e senza strumenti adeguati, perdendo occasioni importanti di crescita e consolidamento. Diventa quindi fondamentale investire in formazione, accompagnamento all’internazionalizzazione, aggregazione dell’offerta e promozione di filiere integrate. In questo scenario, sarebbe utile coinvolgere anche le Camere di Commercio in un tavolo condiviso, che metta insieme istituzioni e rappresentanze imprenditoriali per costruire percorsi comuni e strategie di lungo periodo. Solo così potremo trasformare anche una difficoltà in un’occasione di sviluppo per l’intero comparto agricolo”, conclude.
(Adnkronos) - Il 24 luglio 2025 è l’Earth Overshoot Day, il giorno in cui l’umanità esaurisce il budget ecologico annuale del Pianeta. A calcolarla ogni anno è il Global Footprint Network sulla base dei National Footprint and Biocapacity Accounts gestiti dalla York University. Il Wwf, con la sua campagna Our Future, chiede a tutti di "imparare a vivere nei limiti di un solo Pianeta, oggi più che mai". Secondo i calcoli del Global Footprint Network, infatti, attualmente, la popolazione globale consuma l’equivalente di 1,8 pianeti Terra ogni anno, un ritmo che supera dell’80% la capacità rigenerativa degli ecosistemi terrestri. Questo squilibrio è alla base delle crisi ambientali della nostra epoca: la perdita di biodiversità, la deforestazione, il degrado del suolo, l’esaurimento delle risorse (crisi idrica, collasso di stock ittici) fino all’accumulo di gas serra. Uno sfruttamento di risorse che è aumentato nel tempo, tanto che la data dell’Overshoot si è spostata da fine dicembre, nel 1970, a luglio, nel 2025. Il risultato? Un debito cumulativo nei confronti del Pianeta di 22 anni. In pratica, se il sovrasfruttamento ecologico fosse completamente reversibile, ci vorrebbero 22 anni di piena capacità rigenerativa del Pianeta per ripristinare l'equilibrio perduto. "Un calcolo, però - ricorda il Wwf - solo teorico perché ad oggi non tutta la capacità rigenerativa è più intatta (abbiamo perso intere foreste, eroso i suoli, impoverito i mari…) e alcuni danni che abbiamo provocato sono ormai irreversibili (come le specie che si sono estinte o i ghiacciai sciolti). Inoltre, la crisi climatica in corso aggrava ulteriormente la capacità del Pianeta di rigenerarsi". “Non solo stiamo vivendo 'a credito' ogni anno, ma abbiamo anche accumulato un enorme debito nei confronti del sistema Terra. Ripagare questo debito, in termini ecologici, è quasi impossibile se continuiamo a ignorarne le conseguenze - afferma Eva Alessi, responsabile Sostenibilità del Wwf Italia - Si tratta di una chiamata urgente all’azione per cambiare radicalmente il nostro modello di sviluppo, prima che il danno diventi definitivamente irreparabile”. La rotta - avverte l'associazione - può essere invertita: "Per riportare l’umanità in equilibrio con le risorse terrestri (ovvero far coincidere l’Overshoot Day con il 31 dicembre), dobbiamo ridurre l’impronta ecologica globale di circa il 60% rispetto ai livelli attuali". Per il Wwf, è possibile spostare la data dell’Overshoot agendo in cinque settori strategici: "Transizione energetica (passare a fonti rinnovabili ed eliminare i combustibili fossili); economia circolare (riciclare, riutilizzare, azzerare gli sprechi); alimentazione sostenibile (diminuire il consumo di carne e preferire cibi biologici, locali e stagionali); mobilità green (favorire trasporti pubblici, biciclette e veicoli elettrici); politiche globali (accordi internazionali più stringenti per la tutela ambientale)". Così, "se riuscissimo a spostare l’Overshoot Day di 5 giorni all’anno, entro il 2050 torneremmo in equilibrio con le risorse del Pianeta. Si tratta di una media realistica che combina: tecnologia (efficienza energetica, rinnovabili), comportamenti individuali (dieta, trasporti, stile di vita) e politiche globali (accordi climatici, economia circolare)". “Un nodo cruciale è il nostro modello economico, fondato sulla crescita illimitata dei consumi materiali - di energia, risorse, materie prime - che è semplicemente incompatibile con un Pianeta dalle risorse finite. Non dobbiamo puntare all’aumento quantitativo, ma a un progresso qualitativo, fatto di conoscenza, relazioni umane, diritti e tutela della Natura da cui dipendiamo. È fondamentale sostituire il Pil come unico indicatore di sviluppo con indicatori più complessi, che considerino la salute degli ecosistemi, il benessere psicologico e la coesione sociale”.