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(Adnkronos) - Musicista italiano denuncia un plagio in 'La La Land'. L'accusa arriva dal compositore e sassofonista barese Costantino Ladisa che, a 'La Ragione', parla del processo aperto da anni con un gigante come Justin Hurwitz, che ha curato la colonna sonora del film di Damien Chazelle vincitore di sei Oscar. In tribunale è arrivata 'Mia and Sebastian's Theme' di Hurwitz che secondo Ladisa richiama il suo brano 'Il Parigino', composto nel 2009 per il docu-film 'U megghie paise – I quattro mesi in cui la città impazzì', diretto da Vanni Bramati, di cui nel 2013 è uscito anche il dvd con cd allegato. "È come Davide contro Golia. Io non sono nessuno rispetto a un compositore di fama mondiale, per giunta vincitore di un Oscar. E questo rende tutto ancora più complicato. Eppure sento che sia giusto portare avanti la battaglia. Sono determinato a fare tutto il possibile, anche se sono consapevole che la burocrazia e la giustizia in Italia sono lentissime e scoraggianti", dice Ladisa. Un giorno, ha ricevuto una telefonata da Bramanti: "Mi stava chiamando dal cinema, dov’era andato a vedere 'La La Land'. Non era neanche uscito dalla sala, per quanto era sconvolto. Mi ha detto 'ho appena ascoltato il tema portante della colonna sonora, non ci crederai mai, è identico al tuo pezzo 'Il Parigino'. Il giorno successivo Ladisa è andato a vedere la pellicola: "Appena ho sentito quel tema, mi sono reso conto che effettivamente era davvero molto, troppo simile al mio brano. Ero disorientato, incredulo". Superato lo smarrimento iniziale, Ladisa ha contattato subito "un amico avvocato che si occupa di diritto d’autore. Gli ho fatto ascoltare i due brani e lui ha ritenuto che ci fossero i presupposti per un’azione legale. Per esserne certi, abbiamo coinvolto anche un esperto diplomato in Conservatorio per una perizia tecnica approfondita, con lo stesso identico risultato: anche lui ha confermato la netta somiglianza". Una perizia di 16 pagine, firmata da Marcello Massa, maestro in composizione e arrangiamento, "ha confermato un'identità melodica e armonica tale da ipotizzare che si tratti dello stesso tema in almeno un numero considerevole di battute". Come si legge nel documento, diverse sezioni del brano hollywoodiano presenterebbero strutture melodiche, progressioni armoniche e atmosfere identiche – o quantomeno fortemente derivate – rispetto al brano di Ladisa, scritto e depositato in data ampiamente precedente all’uscita del film americano. Alla domanda 'perché raccontarlo proprio oggi, a distanza di anni?', Ladisa risponde: "Sicuro non per cercare visibilità e fama, dato che sarebbe bastato far uscire la notizia sull’onda lunga del successo di 'La La Land' per raggiungere questo scopo. La realtà è un’altra. Mi sono messo nei panni di un giovane musicista di oggi. Ho provato a immaginare che cosa voglia dire scrivere un brano con fatica e con passione, salvo poi scoprire anni dopo che qualcosa di molto simile viene suonato in un film di Hollywood. Vi assicuro, è frustrante. Io ormai ho 60 anni, una carriera alle spalle che mi ha dato anche diverse soddisfazioni. Insomma sono sufficientemente disincantato per questo mondo e in fondo potrei anche lasciar perdere. Ma voglio portare avanti questa battaglia per un principio di giustizia, non certo per interesse personale". La prossima udienza è prevista addirittura nel 2027: "Voglio che si vada avanti nel modo giusto, in maniera onesta e trasparente. Poi, quello che succederà, non spetta a me dirlo. Non so come siano andate le cose e in fondo non è neppure quello il punto. Oggi, con il web, tutto viaggia in fretta: le cose si condividono, si ascoltano. Insomma, può succedere di tutto. Non voglio fare supposizioni né mettermi a ricostruire dinamiche o eventi che non posso conoscere. A me interessa una sola cosa: capire se i due brani siano davvero uguali. E dev’esser un giudice a stabilirlo".
(Adnkronos) - Il 90% delle startup fallisce entro cinque anni, come spiega Startup Genome. Quindi, in Italia, solo il 10% sopravvive. E no, non è per mancanza di creatività. E’ per assenza di metodo, di competenze reali e di una cultura d’impresa all’altezza delle sfide attuali. A mancare, in molti casi, non è l’innovazione, ma la capacità di trasformarla in un’impresa economicamente sostenibile. i “Una startup non è una scommessa: è una macchina complessa da far funzionare, ogni giorno, con lucidità e pragmatismo”, spiega all’Adnkronos/Labitalia Nicola Zanetti, fondatore di B-PlanNow, autore del libro Startup Fundamentals e protagonista dell’ecosistema europeo tra InnovUp, Italian Tech Alliance, Bulgarian Venture Capital Association e Besco. “Oggi - afferma - fare impresa significa saper governare l’incertezza. Chi guida una startup deve essere un manager della complessità, capace di leggere i mercati in movimento, anticipare i cambiamenti e formarsi costantemente - in verticale (sul proprio settore) e in orizzontale (su strategia, execution, marketing, finanza). La differenza tra chi scala e chi si arena si gioca qui: nella capacità di prendere decisioni rapide, informate e adattive. E serve una preparazione che non si improvvisa”. Negli ultimi quindici anni Zanetti ha lavorato con centinaia di team in fase pre-seed e seed tra Italia ed Europa dell’Est, divulgando i temi legati all’imprenditorialità anche nel suo blog, seguito da oltre 10.000 lettori ogni mese. “Fare impresa - avverte - non è un atto creativo fine a sé stesso, ma un processo decisionale continuo che deve poggiare su basi solide: dati, metriche, insight quantitativi e qualitativi. E’ finita l’era delle scelte ‘di pancia’. Oggi, chi non sa leggere il contesto, analizzare il comportamento del cliente, comprendere i pattern di acquisto e monitorare in tempo reale le performance delle proprie azioni è semplicemente tagliato fuori. L’imprenditoria moderna vive di analisi predittiva”. Secondo la sua analisi, il motivo principale per cui molte startup non superano nemmeno il primo anno è, infatti, la mancanza di competenze manageriali trasversali: pianificazione strategica, gestione finanziaria, organizzazione del lavoro e visione operativa. “L’errore più comune - continua - tra chi si affaccia al mondo dell’imprenditoria e in particolare delle startup è credere che un’intuizione brillante sia sufficiente per costruire un business di successo. Ma la realtà è molto diversa. Un’idea, per quanto affascinante, senza numeri resta un’opinione. E oggi, nel mercato attuale, le opinioni non bastano più. Ai primi posti tra le cause di fallimento ci sono l’esaurimento dei fondi, l’assenza di un mercato effettivo, business model fragili, problemi di pricing e difficoltà interne al team. Tutti elementi che derivano da una preparazione insufficiente su come guidare un’impresa, più che da una carenza di idee”. “L’Italia - sottolinea - è piena di energie imprenditoriali, ma manca una rete solida e continua che accompagni le startup nei primi mille giorni, quando la sopravvivenza si gioca su pochi margini”. Dall’esperienza sul campo, Zanetti ha anche individuato cinque errori ricorrenti che accomunano molte startup che non riescono a crescere: 1) non validare il bisogno di mercato prima di costruire il prodotto; 2) non avere un business model chiaro e innovativo fin dall’inizio; 3) comunicare in modo vago, senza un posizionamento nitido; 4) cercare fondi troppo presto, senza numeri né strategia; 5) affrontare tutto da soli, senza mentor né visione esterna. “Una buona idea - fa notare - non è automaticamente un buon business. Senza validazione, il rischio è costruire un castello nel deserto. E la raccolta fondi non è un punto di partenza, è un punto d’arrivo”. Per rispondere a queste criticità, Zanetti ha sviluppato il metodo ScaleUp, un approccio operativo articolato in sei fasi: modello di business, validazione, posizionamento, go-to-market, modello economico e kpi, fundraising. Un percorso non standardizzato, ma modellato su contesto reale, risorse e mercato. “Ogni progetto - sottolinea - ha bisogno di strumenti concreti ad hoc per decidere meglio. E farlo subito E in un contesto in cui le risorse economiche scarseggiano proprio nei momenti più delicati e in cui la narrazione sulle startup è spesso più ottimistica che realistica, la vera sfida per l’Italia è aiutare chi ha idee a renderle resistenti nel tempo. La priorità oggi non è moltiplicare le startup, ma fare in modo che quelle che esistono diventino aziende vere. Fare impresa oggi è - o dovrebbe essere - una scienza applicata. Ogni mossa può (e deve) essere validata. Ogni strategia può essere testata. Ogni investimento può essere ottimizzato. Questo non significa togliere spazio alla creatività, ma incanalarla dentro un processo strutturato, misurabile e replicabile. Il mio obiettivo è sempre stato creare scaleup profittevoli e non unicorni da vetrina, capaci di stare sul mercato per anni, e far crescere il capitale dei soci e degli investitori”.
(Adnkronos) - “Oggi presentiamo un esempio di ricerca universitaria molto avanzata e già molto vicina a una sperimentazione su strada reale. È qualcosa di potenzialmente pronto per un servizio, ma bisogna fare un grande salto. Lo deve fare l'Italia, lo deve fare l'Europa: trasformare questi bei progetti molto avanzati di ricerca e sviluppo, in progetti industriali imprenditoriali”. Così Sergio Matteo Savaresi, professore e direttore del Dipartimento di Elettronica, Informazione e Bioingegneria del Politecnico di Milano, alla presentazione del progetto ‘Sharing for Caring’, a Darfo Boario Terme (Bs). Si tratta di ‘Robo-caring’, il primo prototipo italiano di mobilità autonoma - una Fiat 500 elettrica sviluppata all’interno del Centro Nazionale per la Mobilità Sostenibile, dal Politecnico di Milano - pensato per persone anziane e con fragilità. Il progetto gode del sostegno di Fondazione Ico Falck e Fondazione Politecnico di Milano, e della collaborazione di Cisco Italia come partner tecnologico. Un'innovazione che si basa su “una tecnologia estremamente complessa che richiede tante risorse economiche - sottolinea il professore - Stiamo provando a trasformare questo bellissimo progetto di ricerca in un grosso progetto imprenditoriale per dare all'Italia e all'Europa la chance di avere questa tecnologia che oggi, di fatto ha solo la Cina e gli Stati Uniti”. Ma per cogliere questa opportunità Italia ed Europa “devono fare un salto”, si diceva. Per farlo servono grosse risorse economiche da impiegare nella trasformazione di una tecnologia estremamente complessa in un servizio disponibile ai cittadini. Ma non solo. “Serve uno sblocco normativo che rimuova la necessità di avere il safety-driver a bordo, oggi obbligatorio per fare questa sperimentazione (Decreto Ministeriale 70 del 2018 ‘Smart Road’ ndr.) - evidenzia Savaresi - Le due cose dovrebbero avvenire idealmente insieme: quando la tecnologia è stata messa completamente a punto da un'entità industriale imprenditoriale, serve lo sblocco normativo”, suggerisce. Il prototipo presentato a Darfo Boario è l'espressione di un futuro imminente. Ma viene da chiedersi: quando vedremo davvero sulle strade italiane un veicolo a guida autonoma senza safety-driver? “Perché la messa a punto industriale e lo sbocco normativo arrivino a compimento prevediamo dai 2 ai 4 anni”, stima Savaresi.