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(Adnkronos) - "Con Donald Trump perderemo due anni: il tempo che faccia il giro del mondo, che non conosce". Forse non aveva visto così male Jean-Claude Juncker che da presidente della Commissione Europea parlò pubblicamente in questi termini, nel 2016, del neoeletto presidente degli Stati Uniti d'America, con un atteggiamento molto diverso da quello di Ursula von der Leyen che, spinta dagli Stati membri, ha accettato di andare a stringere un accordo impari sui dazi nel golf resort del tycoon americano, a Turnberry, nella Scozia sudoccidentale. L'uso dei dazi da parte degli Usa come leva per fare pressione sui partner, se ha funzionato finora alla perfezione con l'Unione Europea, potrebbe rivelarsi un boomerang nei rapporti con un colosso come l'India, il Paese più popoloso del mondo e un partner essenziale anche per Washington, nella competizione con la Cina. Trump ha portato i dazi sulle importazioni dall'India al 50%, un livello proibitivo, accusando Nuova Delhi di continuare a comprare petrolio dalla Russia. Mosca, anche grazie alla vendita del greggio, sul quale l'Occidente ha tentato di imporre un price cap, senza grande successo, può continuare a finanziare la guerra di aggressione contro l'Ucraina, che il presidente americano aveva sostenuto che avrebbe fermato nel giro di 24 ore. In vista dell'ordine esecutivo di Trump, Delhi ha risposto facendo sapere che il primo ministro indiano, Narendra Modi, si recherà in visita in Cina per la prima volta in oltre sette anni. Il viaggio, che secondo la stampa indiana rappresenta un nuovo capitolo nel riavvicinamento a livello diplomatico tra Nuova Delhi e Pechino, si terrà in occasione del vertice dell'Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (Sco), in programma dal 31 agosto nella città di Tianjin. Insomma, l'India fa 'hedging', riavvicinandosi a Pechino, cosa che l'Ue non ha saputo, o non ha voluto, fare. Che il Subcontinente debba parlare con il suo potente vicino è naturale, visto che i due Paesi condividono un confine lungo 3.380 km, quasi il triplo dell'Italia, in gran parte lungo l'Himalaya. Un confine complicato, che ha visto continue scaramucce di confine, fino ai sanguinosi scontri del 2020-21 nel Ladakh, che hanno provocato decine di morti e che hanno costretto l'esercito indiano a mantenere migliaia di soldati ad altitudini estreme, anche d'inverno. La tensione tra Delhi e Pechino si è allentata solo l'anno scorso, quando Modi ha incontrato Xi Jinping a margine di un vertice dei Brics. Ma il fatto che la missione di Modi a Tianjin sia trapelata proprio mercoledì è un chiaro messaggio a Washington: l'India ha tanti amici e non ha bisogno necessariamente degli americani. L'atteggiamento del premier di una nazione estremamente sensibile a quelli che vengono percepiti come atteggiamenti colonialisti dell'Occidente è dovuto, oltre che al nazionalismo indù del leader del Bharatiya Janata Party, anche a motivi di politica interna: l'insofferenza per quelle che vengono vissute come prepotenze dell'Occidente è trasversale nella politica indiana. Il principale oppositore di Modi, Rahul Gandhi, ha scritto via social che "i dazi di Trump al 50% sono un ricatto economico, un tentativo di fare il prepotente con l'India per un accordo commerciale ingiusto. Il premier Narendra Modi - ha sottolineato - farebbe meglio a non lasciare che la sua debolezza prevalga sugli interessi degli indiani". Modi, già indebolito dai risultati delle ultime elezioni (il Bjp ha perso 63 seggi alla Camera, Lok Sabha), non può permettersi di apparire debole di fronte a Trump. Cosa che invece non disturba più di tanto gli europei, assai meno sensibili al 'bullismo' dell'ex colonia britannica diventata superpotenza, oggi guidata da un presidente che ha origini bavaresi e scozzesi. Modi risponde in prima persona e non dispone di una presidente della Commissione sulla quale scaricare la responsabilità, come hanno fatto alcuni politici europei, non italiani, prima indebolendo la posizione dell'Ue chiedendo un accordo con gli Usa subito, poi appoggiando la scelta di stringere un accordo sui dazi per evitare una guerra commerciale e successivamente accusando la Commissione di non essere stata sufficientemente forte. Dunque, i dazi che Trump ha deciso di imporre all'India rischiano di allontanare Delhi dagli Usa. Il rischio era stato visto da una politica repubblicana che l'India la conosce bene, essendo figlia della diaspora Sikh, Nikki Haley. Come ha riportato Firstpost.com, Nimarata Nikki Randhawa (questo il nome da nubile dell'ex sfidante di Trump alle primarie del Gop), ha detto che "l'India non dovrebbe acquistare petrolio dalla Russia. Ma la Cina, avversaria e principale acquirente di petrolio russo e iraniano, ha ottenuto una sospensione tariffaria di 90 giorni. Non date un lasciapassare alla Cina e non rovinate i rapporti con un alleato forte come l'India". Trump non ha ascoltato la sua ex ambasciatrice all'Onu e ha imposto dazi astronomici a New Delhi, pochi giorni dopo avere definito quella dell'India una "economia morta", al pari, a suo dire, di quella russa. La risposta indiana ai dazi Usa è stata decisa: "Prendere di mira l'India è ingiustificato e irragionevole", ha affermato il portavoce del ministero degli Esteri indiano Randhir Jaiswal, dopo che Donald Trump aveva minacciato di alzare "in modo considerevole" le tariffe. "Come ogni grande economia - ha avvertito - l'India prenderà tutte le misure necessarie per salvaguardare i suoi interessi nazionali e la sua sicurezza economica". Si vedrà quali saranno le prossime mosse della più grande democrazia del mondo, che è anche una colonna dei Brics. Intanto, a fine mese Modi andrà in Cina, per la prima volta da sette anni a questa parte. Un segnale che, se non venisse recepito dalla Casa Bianca, è sicuramente giunto forte e chiaro al Dipartimento di Stato. In politica internazionale non ci sono né amici perenni né nemici eterni: solo interessi nazionali permanenti, come ha scritto sul Times of India, S. D. Pradhan, già presidente del Joint Intelligence Committe indiano, citando Lord Palmerston. Come hanno spiegato su Foreign Policy Harsh V. Pant, vicepresidente della Observer Research Foundation di New Delhi, e Kalpit A. Mankikar, fellow per gli studi sulla Cina della stessa fondazione, l'avvicinamento dell'India alla Cina è una "mossa pragmatica", tesa a promuovere gli "interessi economici" del Subcontinente, mentre gli Usa diffondono un clima di "incertezza". Il riavvicinamento a Pechino non è, comunque, una semplice risposta ai dazi di Trump, ma è una manovra che ha solide ragioni geopolitiche. In particolare, spiega Foreign Policy, incide la convinzione indiana che Washington abbia spostato le sue posizioni verso il Pakistan, l'arcinemico di sempre, e la Cina. Gli analisti indiani ritengono che l'amministrazione Trump "potrebbe avvicinarsi simultaneamente a Pechino e Islamabad, per staccare il Pakistan dalla Cina". Nuova Delhi, a sua volta, spera, con il suo riorientamento verso la Cina, "di poter sfruttare la prima di queste tendenze, prevenendo al contempo le ricadute negative della seconda".
(Adnkronos) - Un traguardo importante per Santa Tresa, un passo storico per la viticoltura siciliana: con la recente pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del nuovo disciplinare Terre Siciliane Igt, torna finalmente tra le varietà ammesse anche l’Orisi, vitigno autoctono siciliano a lungo dimenticato e finora impossibile da indicare in etichetta. A riportarlo in vita è stata proprio la tenuta di Vittoria (Ragusa) guidata da Stefano Girelli, che da anni lavora per recuperare questo raro tesoro ampelografico. Fino ad ora l’Orisi, reimpiantato grazie a un progetto sperimentale della Regione Sicilia, non poteva essere nominato sulle bottiglie: il vino prodotto da Santa Tresa portava in etichetta solo una 'O', simbolo del suo nome “non scritto”. Con la modifica del disciplinare, l’Orisi può finalmente riprendersi la sua identità anche in etichetta, coronando un percorso che unisce ricerca e storia dell’enologia siciliana. Il vitigno Orisi, nato dall’incrocio spontaneo tra Sangiovese e Montonico Bianco, era sopravvissuto in pochissimi esemplari nei Nebrodi. Il suo recupero è iniziato nel 2003 grazie a un ambizioso piano regionale di valorizzazione dei vitigni autoctoni siciliani, che ha coinvolto il vivaio regionale Federico Paulsen di Marsala e l’azienda Santa Tresa. Nel vigneto sperimentale di Santa Tresa, che si estende su una superficie di circa 5.600 mq, con 2.830 piante, sono presenti 18 vitigni e circa 31 fenotipi diversi. Un bacino di biodiversità della vitivinicoltura siciliana, dove si studia l’interazione del sistema ecologico 'clima/pianta/terreno' dei diversi cloni dei principali vitigni siciliani, oltre che dei vitigni reliquia come l’Orisi, la loro resilienza per una viticoltura sostenibile. In questi anni, dalle 16 piante presenti nel campo sperimentale della tenuta, si è riusciti a ottenere 1.523 ceppi di Orisi, coltivati a spalliera in terreni franco sabbiosi, minerali, su uno strato di calcareniti compatte. "Oltre al dato tecnico, che consente l'utilizzo in etichetta del nome varietale, per noi di Santa Tresa significa anche il riconoscimento dell'impegno che nasce dal nostro campo sperimentale, dalla tecnica agronomica, passa dalle micro-vinificazioni e giunge, grazie alla cultura enologica, al riconoscimento normativo", commenta Stefano Girelli, alla guida di Santa Tresa con la sorella Marina. La vinificazione di 'O' di Santa Tresa segue un protocollo rigoroso: vendemmia manuale a settembre, refrigerazione, fermentazione in botti di rovere di Slavonia e un lungo affinamento sulle bucce fino alla vendemmia successiva, prima di un riposo in acciaio di 4-5 mesi. Santa Tresa, con i suoi 50 ettari di cui 39 coltivati a vite, continua così a essere un esempio virtuoso di viticoltura biologica, capace di coniugare tradizione, biodiversità e innovazione nel pieno rispetto della natura.
(Adnkronos) - Il 24 luglio 2025 è l’Earth Overshoot Day, il giorno in cui l’umanità esaurisce il budget ecologico annuale del Pianeta. A calcolarla ogni anno è il Global Footprint Network sulla base dei National Footprint and Biocapacity Accounts gestiti dalla York University. Il Wwf, con la sua campagna Our Future, chiede a tutti di "imparare a vivere nei limiti di un solo Pianeta, oggi più che mai". Secondo i calcoli del Global Footprint Network, infatti, attualmente, la popolazione globale consuma l’equivalente di 1,8 pianeti Terra ogni anno, un ritmo che supera dell’80% la capacità rigenerativa degli ecosistemi terrestri. Questo squilibrio è alla base delle crisi ambientali della nostra epoca: la perdita di biodiversità, la deforestazione, il degrado del suolo, l’esaurimento delle risorse (crisi idrica, collasso di stock ittici) fino all’accumulo di gas serra. Uno sfruttamento di risorse che è aumentato nel tempo, tanto che la data dell’Overshoot si è spostata da fine dicembre, nel 1970, a luglio, nel 2025. Il risultato? Un debito cumulativo nei confronti del Pianeta di 22 anni. In pratica, se il sovrasfruttamento ecologico fosse completamente reversibile, ci vorrebbero 22 anni di piena capacità rigenerativa del Pianeta per ripristinare l'equilibrio perduto. "Un calcolo, però - ricorda il Wwf - solo teorico perché ad oggi non tutta la capacità rigenerativa è più intatta (abbiamo perso intere foreste, eroso i suoli, impoverito i mari…) e alcuni danni che abbiamo provocato sono ormai irreversibili (come le specie che si sono estinte o i ghiacciai sciolti). Inoltre, la crisi climatica in corso aggrava ulteriormente la capacità del Pianeta di rigenerarsi". “Non solo stiamo vivendo 'a credito' ogni anno, ma abbiamo anche accumulato un enorme debito nei confronti del sistema Terra. Ripagare questo debito, in termini ecologici, è quasi impossibile se continuiamo a ignorarne le conseguenze - afferma Eva Alessi, responsabile Sostenibilità del Wwf Italia - Si tratta di una chiamata urgente all’azione per cambiare radicalmente il nostro modello di sviluppo, prima che il danno diventi definitivamente irreparabile”. La rotta - avverte l'associazione - può essere invertita: "Per riportare l’umanità in equilibrio con le risorse terrestri (ovvero far coincidere l’Overshoot Day con il 31 dicembre), dobbiamo ridurre l’impronta ecologica globale di circa il 60% rispetto ai livelli attuali". Per il Wwf, è possibile spostare la data dell’Overshoot agendo in cinque settori strategici: "Transizione energetica (passare a fonti rinnovabili ed eliminare i combustibili fossili); economia circolare (riciclare, riutilizzare, azzerare gli sprechi); alimentazione sostenibile (diminuire il consumo di carne e preferire cibi biologici, locali e stagionali); mobilità green (favorire trasporti pubblici, biciclette e veicoli elettrici); politiche globali (accordi internazionali più stringenti per la tutela ambientale)". Così, "se riuscissimo a spostare l’Overshoot Day di 5 giorni all’anno, entro il 2050 torneremmo in equilibrio con le risorse del Pianeta. Si tratta di una media realistica che combina: tecnologia (efficienza energetica, rinnovabili), comportamenti individuali (dieta, trasporti, stile di vita) e politiche globali (accordi climatici, economia circolare)". “Un nodo cruciale è il nostro modello economico, fondato sulla crescita illimitata dei consumi materiali - di energia, risorse, materie prime - che è semplicemente incompatibile con un Pianeta dalle risorse finite. Non dobbiamo puntare all’aumento quantitativo, ma a un progresso qualitativo, fatto di conoscenza, relazioni umane, diritti e tutela della Natura da cui dipendiamo. È fondamentale sostituire il Pil come unico indicatore di sviluppo con indicatori più complessi, che considerino la salute degli ecosistemi, il benessere psicologico e la coesione sociale”.