General Motors Powertrain Europe srlGM Powertrain Engineering Center Torino è un centro ingegneristico, fondato nel 2005, che si occupa di motori e centraline di controllo motore. |
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(Adnkronos) - Torna a vedere il primo paziente al mondo trattato con una nuova terapia genica 'a doppio vettore' per una rara malattia genetica che colpisce anche la retina, la sindrome di Usher di tipo 1B. L'interveno innovativo è stato realizzato presso la Clinica oculistica dell'università degli Studi della Campania 'Luigi Vanvitelli'. "Ho accettato di essere il primo paziente non solo per me, ma per tutti quelli che vivono le mie stesse difficoltà. Prima della terapia genica tutto era confuso, indistinto. Ora riesco a uscire la sera da solo, riconosco i colleghi, le forme degli oggetti, leggo i sottotitoli in Tv anche da lontano, vedo le corsie del magazzino dove lavoro senza inciampare. Non è solo vedere meglio: è iniziare a vivere", ha detto il 38enne italiano, operato a luglio scorso, che a distanza di 1 anno non è più ipovedente. Aveva una vista inferiore a 1 decimo e vedeva come dal buco di una serratura, mentre ora riesce a percepire anche i contorni del campo visivo. Un risultato dovuto a una terapia genica messa a punto dall'Istituto Telethon di genetica e medicina di Pozzuoli (Tigem), che è stata impiegata anche su altri 7 pazienti italiani, trattati anch'essi nel centro partenopeo, tra ottobre 2024 e aprile 2025. I dati preliminari di questi 7 casi confermano tollerabilità e sicurezza dell'approccio; a loro si stanno per aggiungere ulteriori 7 pazienti che saranno operati a breve. "L'intervento di terapia genica non è, in sé, particolarmente complesso", spiega Francesca Simonelli, ordinaria di Oftalmologia, direttrice della Clinica oculistica e responsabile del Centro di terapie avanzate oculari dell'università Vanvitelli. "Si svolge in anestesia generale - descrive - e prevede l'iniezione, nello spazio al di sotto della retina, di 2 vettori virali distinti che trasportano ciascuno metà dell'informazione genetica necessaria per produrre la proteina che manca nei pazienti. Il recupero dall'intervento è rapido e l'effetto sull'acuità visiva è visibile già dopo pochi giorni: a 2 settimane di distanza, per esempio, il primo paziente trattato mostrava già un miglioramento della capacità visiva e a 1 mese era in grado di vedere meglio anche in condizioni di scarsa luminosità. A oggi, di fatto, gli è stata restituita la vista". Il primo paziente è stato trattato con la dose più bassa prevista nello studio internazionale di fase I/II Luce-1, sponsorizzato da AAVantgarde Bio, azienda biotecnologica nata nel 2021 come spin-off dell'Istituto della Fondazione Telethon. Lo studio coinvolge, oltre all'università campana, il Moorsfield Eye Hospital e la The Retina Clinic di Londra. La clinica partenopea a oggi è l'unica al mondo ad avere iniziato i trattamenti, intervenendo anche su altri 7 pazienti con sindrome di Usher di tipo 1B che sono stati trattati per metà con la dose più bassa di terapia genica e per metà con una dose intermedia. A breve saranno coinvolti nella sperimentazione altri 7 pazienti, nei quali sarà testato anche un terzo dosaggio più elevato. "I dati preliminari raccolti sugli altri 7 pazienti trattati finora - riferisce Simonelli - confermano la sicurezza e tollerabilità della terapia genica. Non si sono registrati eventi avversi seri a nessuna delle 2 dosi testate e l'infiammazione oculare osservata in alcuni pazienti è poco frequente, limitata e si risolve con una terapia a base di corticosteroidi". "Questi risultati molto incoraggianti - continua - costituiscono una speranza per tanti pazienti con malattie retiniche ereditarie. Il nuovo metodo, frutto della ricerca italiana, potrà aiutare a recuperare o preservare la funzione visiva di chi soffre della sindrome di Usher di tipo 1B, ma anche di pazienti con altre patologie ereditarie dell'occhio che dipendono da difetti in geni che finora non potevano essere trasferiti attraverso le procedure standard di terapia genica". Il trattamento "è frutto di oltre 10 anni di ricerca condotta al Tigem grazie al costante supporto della Fondazione Telethon", commenta Alberto Auricchio, direttore del Tigem e della ricerca di AAVantgarde Bio, oltre che professore ordinario di Genetica medica all'università Federico II di Napoli. "La sindrome di Usher rappresenta una delle sfide più complesse della medicina moderna. Il trattamento sperimentale di terapia genica a doppio vettore rappresenta una pietra miliare nel campo delle malattie genetiche rare", commenta Maria Rosaria Campitiello, capo Dipartimento della Prevenzione, della ricerca e delle emergenze sanitarie del ministero della Salute. "Come ministero della Salute sosteniamo con determinazione la ricerca. In ambito oculistico abbiamo finanziato un progetto dedicato al glioma del nervo ottico e con le risorse del Pnrr abbiamo sostenuto altri 11 progetti. Il nostro impegno però è sistemico: con oltre 524 milioni di euro destinati alla ricerca sanitaria attraverso il Pnrr stiamo promuovendo innovazione, equità e sostenibilità su tutto il territorio nazionale. Questo è il nostro compito: trasformare ogni scoperta in cura, ogni dato in azione, ogni visione in realtà", conclude Campitiello.
(Adnkronos) - Il passaggio generazionale rappresenta oggi una vera e propria urgenza industriale, ma quali sono gli ostacoli – culturali, organizzativi o personali – che ancora ne rallentano una pianificazione consapevole nelle imprese italiane? Adnkronos/Labitalia ne ha parlato con Marco Oliveri, co-founder & partner di KeyPartners. “Il passaggio generazionale – afferma – è una bomba a orologeria che riguarda l’intera struttura produttiva italiana. Entro il 2030, più di 400.000 imprese familiari, pari a circa ¼ del tessuto imprenditoriale privato nazionale, dovranno affrontare un ricambio ai vertici. Eppure, secondo le stime, solo il 17% ha già avviato un processo di successione strutturato. I motivi? Spesso non sono tecnici ma profondamente culturali. Il fondatore tende a rimanere accentratore, faticando a ‘mollare il timone’; la governance è spesso informale e poco adatta a gestire una transizione; e il ricambio viene vissuto come una perdita di potere, anziché come un atto di visione. Il paradosso è che si pianifica l’espansione, l’M&a, persino la digitalizzazione, ma non si pianifica la continuità. E’ come costruire un grattacielo senza prevedere le scale antincendio”. “In Italia – spiega – esiste una nuova classe imprenditoriale pronta a raccogliere il testimone, ma va coltivata e messa nelle condizioni di agire. Parliamo di una generazione più internazionale, fluente in modelli di business agili, digitale-native e con una maggiore attenzione a esg, de&i e impatto sociale. Una generazione che conosce e sperimenta attivamente l’utilizzo delle nuove tecnologie, dall’intelligenza artificiale ai big data, fino agli strumenti di automazione dei processi decisionali e alla digitalizzazione della customer experience. Ma la preparazione tecnica non basta. La nuova leadership deve saper tenere insieme il rispetto per il passato e il coraggio del cambiamento, saper dialogare con generazioni diverse, portare innovazione anche dove la tradizione è radicata. Il vero punto non è solo ‘cambiare’ ma convincere e guidare il cambiamento, dentro e fuori l’organizzazione. Le aziende che ce la fanno sono quelle che non lasciano soli i futuri leader, ma li affiancano con governance moderne, modelli collaborativi e alleanze strategiche”, aggiunge. Per Oliveri “oggi la leva per affrontare questa transizione generazionale è la professionalizzazione del processo. Non basta identificare ‘chi viene dopo’: serve un piano, una governance chiara, un assessment delle competenze e una roadmap per lo sviluppo. In KeyPartners accompagniamo le aziende in questo percorso con un approccio multidisciplinare: executive search per inserire risorse strategiche anche esterne alla famiglia; assessment e leadership advisory per valutare e far crescere i profili interni; coaching per le generazioni entranti e uscenti; e strumenti per il disegno della governance”. “Costruiamo – racconta – piani di successione su misura con metriche e kpi (key performance indicator), aiutiamo le imprese a gestire la transizione come un’opportunità strategica e non come una fase di incertezza. Abbiamo visto casi in cui la nuova generazione ha raddoppiato il business in pochi anni – ma solo quando inserita con metodo, visione e un ruolo ben definito. Inoltre, siamo attivamente coinvolti in progetti di diversity, equity & inclusion, un ambito che riteniamo fondamentale anche nei processi di passaggio generazionale. Una leadership inclusiva, consapevole delle dinamiche di genere, culturali e valoriali, è oggi un requisito essenziale per guidare imprese che vogliono essere competitive nel lungo periodo. Inserire la de&i come parte della cultura manageriale delle nuove generazioni è uno dei principali investimenti per il futuro”. Cosa dovrebbero fare le istituzioni per accompagnare e incentivare il passaggio generazionale nelle pmi italiane? “Serve – sottolinea – un cambio di paradigma: il passaggio generazionale non è un tema familiare, è una priorità industriale. E va trattata come tale. Da un lato, strumenti fiscali e normativi che premino le imprese che pianificano il ricambio: incentivi per chi investe nella formazione dei successori, agevolazioni per i passaggi di proprietà, supporti per la consulenza e la governance". "Dall’altro, servono tavoli tecnici permanenti tra istituzioni ed esperti – come noi di KeyPartners – per costruire soluzioni concrete, rapide e replicabili. Perché non prevedere, ad esempio, un credito d’imposta per le imprese che avviano un percorso certificato di successione? Oppure un sistema premiante per i distretti che si rigenerano con governance intergenerazionali? In un Paese che basa l’80% del Pil sulle pmi, perdere imprese per mancanza di continuità è un danno economico e sociale. Il futuro non si eredita: si costruisce, con metodo e visione. E’ tempo di affrontare questa sfida con l’urgenza che merita”, conclude.
(Adnkronos) - “Oggi presentiamo un esempio di ricerca universitaria molto avanzata e già molto vicina a una sperimentazione su strada reale. È qualcosa di potenzialmente pronto per un servizio, ma bisogna fare un grande salto. Lo deve fare l'Italia, lo deve fare l'Europa: trasformare questi bei progetti molto avanzati di ricerca e sviluppo, in progetti industriali imprenditoriali”. Così Sergio Matteo Savaresi, professore e direttore del Dipartimento di Elettronica, Informazione e Bioingegneria del Politecnico di Milano, alla presentazione del progetto ‘Sharing for Caring’, a Darfo Boario Terme (Bs). Si tratta di ‘Robo-caring’, il primo prototipo italiano di mobilità autonoma - una Fiat 500 elettrica sviluppata all’interno del Centro Nazionale per la Mobilità Sostenibile, dal Politecnico di Milano - pensato per persone anziane e con fragilità. Il progetto gode del sostegno di Fondazione Ico Falck e Fondazione Politecnico di Milano, e della collaborazione di Cisco Italia come partner tecnologico. Un'innovazione che si basa su “una tecnologia estremamente complessa che richiede tante risorse economiche - sottolinea il professore - Stiamo provando a trasformare questo bellissimo progetto di ricerca in un grosso progetto imprenditoriale per dare all'Italia e all'Europa la chance di avere questa tecnologia che oggi, di fatto ha solo la Cina e gli Stati Uniti”. Ma per cogliere questa opportunità Italia ed Europa “devono fare un salto”, si diceva. Per farlo servono grosse risorse economiche da impiegare nella trasformazione di una tecnologia estremamente complessa in un servizio disponibile ai cittadini. Ma non solo. “Serve uno sblocco normativo che rimuova la necessità di avere il safety-driver a bordo, oggi obbligatorio per fare questa sperimentazione (Decreto Ministeriale 70 del 2018 ‘Smart Road’ ndr.) - evidenzia Savaresi - Le due cose dovrebbero avvenire idealmente insieme: quando la tecnologia è stata messa completamente a punto da un'entità industriale imprenditoriale, serve lo sblocco normativo”, suggerisce. Il prototipo presentato a Darfo Boario è l'espressione di un futuro imminente. Ma viene da chiedersi: quando vedremo davvero sulle strade italiane un veicolo a guida autonoma senza safety-driver? “Perché la messa a punto industriale e lo sbocco normativo arrivino a compimento prevediamo dai 2 ai 4 anni”, stima Savaresi.