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(Adnkronos) - “So, dalle persone che devono autorizzare questi raid, che questa era l’ultima cosa che avrebbero voluto accadesse”. Lo afferma Michael Oren, già ambasciatore israeliano negli Stati Uniti e membro della Knesset, parlando con l’Adnkronos del raid delle Forze di difesa israeliane (Idf) che ha colpito la chiesa della Sacra Famiglia nella Striscia di Gaza e provocato tre morti. “Più Gaza passa sotto controllo israeliano, più aumenta il rischio che ordigni esplodano dove non dovrebbero”, puntualizza Oren, aggiungendo che la popolazione israeliana è “confusa e turbata” a riguardo. L’episodio è solo l’ultima fonte di preoccupazione per il premier Benjamin Netanyahu, alle prese con molteplici fronti esteri e una crisi interna che rischia di far crollare il suo governo in seguito all’uscita di due partiti ultraortodossi. Tutte questioni interconnesse. È possibile che la sua strategia attuale sia quella di arrivare alla pausa estiva della Knesset, che inizierà il 27 luglio e finirà il 19 ottobre, spiega l’ex ambasciatore. Nei tre mesi di sospensione dell’attività parlamentare il primo ministro “può fare molto. Magari un accordo su Gaza che il suo governo finora non avrebbe accettato. Potrebbe anche avviare un processo di pace con l’Arabia Saudita, forse con Libano e Siria, e poi arrivare alle elezioni del 2026 rafforzato”. L’ostacolo sono i forti attriti all’interno della coalizione che sostiene Netanyahu, un riflesso delle più ampie divisioni nella società israeliana. I due partiti dimissionari minacciano di far crollare l’esecutivo per non aver dato seguito alla promessa di esentare la popolazione ultraortodossa dalla leva militare obbligatoria. Di contro, sia la popolazione che l’esercito sono “esausti” dopo ventuno mesi di guerra, alle forze Idf servono nuovi effettivi, e l’esecutivo è “malvisto” per non aver ancora agito sull’arruolamento degli studenti della Torah, spiega il diplomatico. Su tutto grava ancora il “terribile dilemma” di Gaza, dove la scelta è tra sconfiggere Hamas e liberare gli ostaggi, “due obiettivi che si escludono a vicenda”. “Il governo sostiene, non del tutto a torto, che se si accetta di finirla e ritirarsi da Gaza, Hamas uscirebbe dai tunnel, dichiarerebbe la vittoria, riprenderebbe il controllo, si riorganizzerebbe, e magari tra cinque o dieci anni attaccherebbe di nuovo. Forse si salverebbero 20 ostaggi oggi, ma di certo non tutti. E si rischia di perdere 200, 2000 israeliani in futuro”. I miliziani non restituiranno tutti gli ostaggi per scoraggiare ulteriori attacchi israeliani dopo l’avvenuta liberazione, obiettivo a suo tempo caldeggiato dal governo israeliano, sottolinea Oren. Al contempo, "il premier pensa che se il jihadismo vince, se Hamas viene percepita come trionfante, allora anche la Cisgiordania potrebbe esplodere". Il rischio è anche che crolli la possibilità dell'estensione degli Accordi di Abramo per la stabilità regionale, perché "nessun Paese arabo farà pace con uno Stato percepito come debole", aggiunge l’ex ambasciatore. "Ci sarebbero problemi in Europa, anche in Italia”, prosegue, ricordando il rapporto pubblicato di recente dal governo francese secondo cui i Fratelli Musulmani, collegati a Hamas, hanno creato uno Stato nello Stato in Francia: “bisogna riflettere su cosa significherebbe, per il Paese, se Hamas vincesse”. Inoltre Israele dovrebbe scambiare gli ostaggi rimanenti con i prigionieri nella consapevolezza che l’80% di questi torna al terrorismo. “Quindi ci sarebbero conseguenze mortali. Questo dice il governo". Nel mentre, ci sono divisioni anche sulla gestione di Gaza stessa, con potenziali impatti sistemici sulla forza militare israeliana, spiega Oren. “Parte del governo vorrebbe costringere la popolazione palestinese a spostarsi nel 25% sud della Striscia, la cosiddetta ‘zona umanitaria’, lasciando il restante 75% a nord, dove poi l’esercito entrerebbe a ‘ripulire’ la zona da Hamas. E magari chi sostiene questo progetto vuole anche ricostruire insediamenti israeliani a nord. Ma l’esercito dice che non si può fare”. Si tratta della “prima volta nella storia del Paese in cui l’esercito dice chiaramente ‘no’ al governo”, avverte, spiegando che un amico nell’Idf gli ha riferito che non può escludere il rifiuto dei soldati di continuare a combattere. “Non so se sono d'accordo con questa affermazione, ma se ne parla. Mai successo". In tutto questo, i media israeliani “non coprono in modo significativo le critiche che Israele riceve dal resto del mondo e il crescente isolamento. Su un’ora di telegiornale, quaranta minuti sono dedicati ai caduti. Non vediamo ciò che vede il mondo. Non vediamo molta della sofferenza palestinese. C’è un grande punto cieco qui. E questo vale per i media di sinistra, non solo per quelli di destra”. In tutto questo, gli attacchi in Siria “sollevano interrogativi sul motivo per cui Israele, mentre sta combattendo su più fronti, abbia deciso di aprirne uno nuovo, e proprio con un Paese dove i vertici hanno espresso interesse nel mantenere contatti diplomatici aperti”, evidenzia l’ex ambasciatore israeliano. “Detto questo, ci sono motivazioni convincenti per l’azione militare”, a partire dal “patto di sangue” esistente tra la minoranza drusa, al centro di un’ondata di violenza settaria, e israeliani. Anche perché quel legame strettissimo ha a che fare con l’esistenza stessa dello Stato di Israele. “Nel 1956 i drusi si offrirono volontari per il servizio militare obbligatorio nelle Idf, una delle sole due comunità non ebree ad averlo fatto, e hanno avuto un ruolo fondamentale nella nostra difesa”, racconta Oren. Poi il legame “si è complicato nel 2018, quando la Knesset ha approvato una legge ha designato Israele come Stato-Nazione del popolo ebraico, ma senza menzionare i drusi. E molti di essi si sono offesi. Quindi il nostro rapporto con loro è radicato, ma anche delicato”. La “famiglia drusa” è rimasta unita al netto dei confini tracciati nel Novecento, e i suoi membri vorrebbero che Israele li proteggesse allo stesso modo in cui protegge gli ebrei minacciati nel mondo. La componente ebraica d’Israele è d’accordo, Netanyahu lo sa, e “qualunque governo israeliano avrebbe agito allo stesso modo”, conclude l’ex ambasciatore. Ci sono altri motivi per i bombardamenti Idf in Siria, come lo scetticismo degli israeliani rispetto al fatto che il presidente ad interim Ahmed Al Sharaa possieda l’autorità di stipulare un accordo con Israele, e se sarà ancora al potere fra un anno. La Siria è frammentata, ospita una moltitudine di minoranze etniche e religiose, e fin dall’indipendenza “è stato tenuto insieme da una forma di potere centrale e brutale”. L’esempio per eccellenza è la dinastia dell’ultimo dittatore siriano, Bashar al-Assad, rovesciato da al-Sharaa lo scorso dicembre e responsabile della morte di migliaia dei propri cittadini. E “non è chiaro” se il presidente ad interim, che ha sempre combattuto la minoranza alawita e ora si trova in conflitto con quella drusa, abbia una presa solida sul Paese. Da questi segnali di instabilità, uniti alle prove riguardo la presenza di armi non contabilizzate, incluse armi chimiche, nel Paese, deriva il timore israeliano che il governo siriano possa crollare e che la zona cuscinetto nel sud della Siria torni ad essere una minaccia. Quella zona smilitarizzata e sotto controllo Onu, rioccupata temporaneamente da Israele dopo la destituzione di Assad, fu creata come parte di un accordo di cessate il fuoco dopo la guerra del Yom Kippur, promosso da Henry Kissinger e firmato da Hafez al Assad, padre e predecessore di Bashar. La paura di Israele, dunque, è che il governo attuale non lo rispetti e non lo onori, spiega Oren. Su questo scenario intricato si staglia la presenza dell’Iran, finanziatore di ultima istanza di Hamas, Hezbollah, gli Houthi e altre formazioni che minacciano l’esistenza stessa di Israele, nonché oggetto di una campagna di bombardamenti israeliani lo scorso giugno, a cui gli Stati Uniti hanno dato manforte. “Dal punto di vista militare si può parlare di vittoria. Ma strategicamente siamo lontani da ciò, perché gli iraniani non pensano di essere stati sconfitti”, puntualizza l’ex ambasciatore. Stando al regime l’Iran non si è arreso a Israele e agli Usa, “anzi, sono stati gli americani a voler cedere e fare pressioni sugli israeliani affinché si arrendessero”. Il leader supremo Ali Khamenei ha scritto in un post che l’Iran ha vinto la guerra affrontando la più grande superpotenza del mondo, “ed è proprio ciò che non volevo si verificasse. Quindi, la domanda è: lo credono davvero o è solo retorica? C’è la possibilità che ci credano davvero”. Nel mentre, prosegue Oren, “nessuno conosce davvero i termini del cessate il fuoco in vigore. Se dovessero ricominciare a ricostruire Fordow”, centro fondamentale per il programma nucleare iraniano, “è previsto qualcosa a riguardo? Se no, cosa dovrebbe fare Israele? E cosa sono disposti a fare gli Stati Uniti? Ci sono moltissime domande. E credo che l’Iran sia in una posizione tale da potersi riprendere”. L’obiettivo è riavviare i negoziati per un accordo che imbrigli il programma nucleare iraniano, ambito in cui l’Ue ha un ruolo “estremamente importante”. A ottobre decorre il decennale JCPoA, l’accordo nucleare partito nel 2015 e da cui gli Usa si sono sfilati durante il primo mandato di Donald Trump, mossa che Oren condanna. Ora gli europei, che ne fanno ancora parte, devono accordarsi sul sanzionare l’Iran in merito al mancato rispetto del Trattato di non proliferazione (certificato a giugno dall’Agenzia internazionale per l’energia atomica), per poi mettere pressione al regime allo scopo di convincerlo ad accettare ispezioni nei centri di sviluppo nucleare e rivelare la posizione delle scorte di uranio altamente arricchito. Anche se, stando al diplomatico, “l’unica cosa che potrebbe indurre il governo iraniano a riprendere i negoziati sarebbe il timore di una rivolta interna”. Si tratta di una possibilità su cui le valutazioni del mondo esterno, Israele incluso, sono “sempre state troppo ottimistiche”. Lo stesso Netanyahu prevedeva che il regime iraniano sarebbe collassato al termine della campagna militare, spiega Oren, citando fonti con conoscenza diretta del pensiero del premier. Questo è un riflesso di una debolezza più strutturale del Paese e dei suoi apparati di intelligence: “Israele è molto bravo a sapere dove un obiettivo pranzerà il martedì e dove cenerà il mercoledì, dove vengono tenute le armi. Siamo bravi a piazzare microspie e cercapersone. Ma siamo meno bravi nell’anticipare le tendenze a lungo termine… molto bravi nel pensiero tattico, ma non quello strategico”. “L’Iran è un caso classico in cui sapevamo tantissimo su dove dormisse ognuno degli obiettivi. Abbiamo eliminato 30 leader”, evidenzia l’ex ambasciatore. Per quanto riguarda la prospettiva di lungo periodo, tra gli esperti c’era la “sensazione generale” che dopo le bombe la popolazione sarebbe insorta. “In realtà è successo il contrario: la popolazione si è stretta attorno al regime”. (di Otto Lanzavecchia).
(Adnkronos) - Dal progetto 'Superjob' che da oltre cinque anni sostiene attivamente l'inclusione delle persone con disabilità nel mondo del lavoro, alle iniziative di volontariato sociale in favore delle persone più vulnerabili e della tutela dell’ambiente, alla collaborazione con un network di associazioni del Terzo settore attive sui temi della Diversity & Inclusion (D&I): nel 2025 Neopharmed Gentili rinnova e amplia il proprio impegno ESG (Environmental, Social, and Governance) attraverso iniziative concrete che riflettono una cultura d’impresa guidata dalla centralità della salute, umana e animale, dai valori della solidarietà e dell’inclusione, e dalla responsabilità verso la comunità in cui opera. L’obiettivo è dare un contributo tangibile alla costruzione di un futuro di benessere, più equo e sostenibile, per una migliore qualità della vita. La tutela della diversità è un principio fondante della filosofia aziendale, che Neopharmed Gentili persegue sia all’interno dell’organizzazione, sia verso l’esterno, attraverso iniziative volte a supportare una società più giusta, rispettosa e inclusiva. Per realizzare questa mission, l’Azienda ha ulteriormente implementato Superjob, la piattaforma di e-recruitment di cui è Main Sponsor dal 2020, nata dalla collaborazione con Michael Page per facilitare l’inserimento delle persone diversamente abili nel mondo del lavoro e portare nuove visioni all’interno delle realtà produttive del Paese. Il progetto è stato ampliato attivando nuove sinergie e percorsi dedicati a bambini e ragazzi con ‘abilità speciali’, volti a promuovere l’integrazione attraverso lo sport, l’arte-terapia e il contatto con la natura quali potenti strumenti di condivisione per abbattere i muri del pregiudizio e costruire ponti di inclusività. Nell’ambito dell’impegno sui temi della D&I, nel 2025 Neopharmed Gentili ha rinnovato la collaborazione con Organizzazioni del Terzo Settore che sostengono pratiche inclusive tra i giovani e in diversi contesti sociali e lavorativi. Tra queste, l’adesione al network di Fondazione Libellula, la rete di aziende impegnate per la prevenzione e il contrasto della violenza di genere, con la quale saranno promossi incontri formativi sui temi delle pari opportunità e dell’inclusione, rivolti alla popolazione aziendale. E ancora il sostegno alle attività e ai progetti dell’Associazione PizzAut in favore dell’inserimento lavorativo dei giovani con autismo. Per il secondo anno consecutivo, in collaborazione con Opera San Francesco per i poveri Ets, i dipendenti di Neopharmed Gentili hanno affiancato i volontari dell’Associazione nei servizi di mensa e guardaroba (cambio di abiti) in sostegno delle persone più indigenti. L’iniziativa solidale proseguirà fino a settembre, per offrire pasti caldi e accoglienza anche durante il periodo estivo, quando le città si svuotano e aumenta la solitudine per chi vive in condizioni di vulnerabilità economica e sociale. Non solo impegno per le persone, ma anche per gli animali: ha registrato grande partecipazione il progetto di Corporate Pet Responsability sviluppato da Neopharmed Gentili insieme a Empethy, la piattaforma attiva sui temi del randagismo, dell’adozione responsabile e della corretta gestione degli animali domestici. Attraverso la creazione di un ‘rifugio virtuale’ per cani e gatti, 50 pet hanno trovato una nuova famiglia. Nell’ambito dell’iniziativa, i dipendenti hanno inoltre preso parte a una giornata di sensibilizzazione presso il canile di Vairano di Vidigulfo (Pavia), diventando ambassador dell’importanza di contrastare l’emergenza del randagismo e di promuovere la tutela del benessere animale. Un’attenzione particolare è rivolta ai temi della tutela ambientale, da sempre ambito di grande impegno per contribuire alla creazione di un contesto di vita sano quale requisito essenziale per garantire il benessere psico-fisico delle persone. In collaborazione con l’Associazione di volontariato WAU! - We Are Urban, che promuove interventi di riqualificazione e di tutela del patrimonio ambientale e culturale della città di Milano, Neopharmed Gentili ha aderito al progetto ‘Chi raccoglie semina civiltà’: due giornate all’insegna della cura della città, durante le quali dipendenti e volontari si sono dedicati alla pulizia delle aree verdi, raccogliendo oltre 180 kg di rifiuti e più di 11mila mozziconi. “Neopharmed Gentili è per vocazione proiettata al futuro, per aiutare le persone a vivere una vita sana e più longeva possibile. Per realizzare questa mission, siamo attenti ai bisogni degli individui, soprattutto di chi è più vulnerabile, al contesto sociale in cui operiamo e alle sfide ambientali, consapevoli che le decisioni e le azioni di oggi avranno un impatto significativo sul mondo che lasceremo alle generazioni future”, dichiara Giorgia Avagliano, hr director di Neopharmed Gentili. “Siamo convinti che ogni impresa abbia il dovere di generare valore oltre il profitto. Le nostre iniziative Esg nascono da questa consapevolezza: vogliamo essere parte attiva nel costruire un futuro più equo, responsabile e sostenibile, dove salute, rispetto e cura camminano insieme”.
(Adnkronos) - “Noi, come Comuni, siamo stati i primi a mettere a terra le potenzialità del Pnrr. Abbiamo realizzato nuove infrastrutture, molte di queste opere sono in corso ma siamo stati tra i primi ad aver rispettato le tempistiche e gli obiettivi del Pnrr”. Lo ha detto Vito Parisi, vicepresidente Anci (Associazione nazionale Comuni italiani) con delega al trasporto pubblico locale a alla mobilità sostenibile, partecipando alla presentazione della terza edizione di ‘Eco Festival della mobilità sostenibile e delle città intelligenti’, che Anci patrocina, in programma il 16 e 17 settembre 2025 nel Centro Congressi di Piazza di Spagna a Roma. “Ora bisogna parlare di governance, perché c’è l’infrastruttura, ma ci serve un processo di pianificazione seria, che vada oltre i Pums, i Piani urbani di mobilità sostenibile di cui si sono dotati diversi Comuni. Servono delle agenzie di trasporto - aggiunge - con dei manager che gestiscono il trasporto pubblico, e questo deve avvenire in sede locale e pubblica, come quella dei Comuni. Mi auguro che questo fondo venga rimpinguato, perché le risorse non sono soddisfacenti, e che ci sia un ripensamento”. Le agenzie di trasporto dei medi e piccoli Comuni, rispetto a quelli metropolitani, sembrano aver già individuato modelli virtuosi che, spiega Parisi, potrebbero essere applicati anche alle grandi città: “Mi auguro che quanto prima ci sia una condivisione dei dati al riguardo. Purtroppo, oggi la domanda di trasporto pubblico è basata su un dato storico e non si tiene conto delle evoluzioni che ci sono state, di quello che accade all’interno delle stazioni ferroviarie o con lo sharing dell’automobile piuttosto che delle biciclette. È un sistema che si sta evolvendo, però è importante che la sua governance ritorni in una sede pubblica. L’auspicio è che tutto ciò diventi molto concreto, perché date le tendenze ormai prossime, come la guida autonoma e l’intelligenza artificiale, noi non possiamo subire un processo che rischia di essere nelle mani del privato”.