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ENEA - Agenzia Nazionale Nuove Tecnologie, Energia e Sviluppo Economico Sostenibile Energia, Acqua e Ambiente Ruolo: referente Area: Altro Anna Amato |
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(Adnkronos) - "Siamo davvero lieti oggi di presentare il marchio di garanzia Aigp, Asta Immobiliare Garantita e Protetta. Questa è la risposta che diamo a un'esigenza che ci è stata manifestata dal pubblico degli utenti: l'esigenza che nelle aste ci sia trasparenza, ci sia garanzia, ci sia protezione. Chi si rivolge alle aste, sia lato venditore che lato compratore, deve essere tutelato". Così Roberto Poletto, real estate manager e ceo di App – Aste Private Professionali Auction House, intervenendo all’evento “La nuova frontiera delle aste” che si è svolto oggi a Padova. È stata l’occasione per presentare Aigp - Asta Immobiliare Garantita e Protetta, un innovativo servizio certificato che rivoluziona il settore delle aste tra privati. Poletto entra poi nel dettaglio spiegando il funzionamento di Aigp: “Per quanto riguarda gli immobili, prima che arrivino all'asta vera e propria, verrà effettuato un procedimento di verifiche preliminari di natura tecnica, saranno coinvolti professionisti ad ampio spettro, dal notaio all'architetto al geometra. Verranno fatti tutti i controlli preliminari, verrà accertato che il proprietario sia nella possibilità di vendere l'immobile e che l'immobile sia idoneo alla vendita, ovvero che non presenti vizi o qualche altro tipo di deformità che possa renderlo inidoneo al successivo trasferimento di proprietà”. In un momento in cui il settore della vendita all’incanto sta rapidamente crescendo ed evolvendo grazie al supporto della tecnologia, garantire sicurezza a venditore e compratore diventa fondamentali: “Il principale ostacolo all'utilizzo massivo delle aste immobiliari private è proprio la necessità di dare tranquillità alle persone, c'è ancora troppa diffidenza. Questa è la nostra risposta, il marchio di garanzia che tutela sia il venditore che il compratore” conclude Poletto.
(Adnkronos) - L’Intelligenza Artificiale (IA) sta crescendo rapidamente in Italia, con il 63% delle aziende di grande dimensione che ha già adottato o intende adottare questa tecnologia. Questo livello di adozione si potrebbe tradurre in un aumento complessivo della produttività per le aziende italiane pari a 115 miliardi di euro. È quanto emerge dallo studio 'Lo stato dell’arte dell’Intelligenza Artificiale nelle aziende italiane - Adozione, impatti e prospettive', realizzato da Minsait, società del Gruppo Indra leader nei nuovi ambienti digitali e nelle tecnologie dirompenti, e da The European House - Ambrosetti. “Il nostro studio mostra un’importante crescita dell'adozione dell'IA da parte delle aziende italiane, che si riscontra in generale in una fase di curiosa sperimentazione, lavorando prevalentemente su innovazioni incrementali, piccole trasformazioni e miglioramenti graduali, mentre la trasformazione radicale di prodotti, modelli di business o processi core è ancora rara. Questo approccio per piccoli passi è necessario e comprensibile ma non può essere la norma se le aziende Italiane vogliono giocare un ruolo da protagonista nell’economia dell’intelligenza artificiale. Nell’utilizzo dell’Ia, dobbiamo passare dal “fare cose più velocemente” al “fare cose radicalmente nuove”. E questo richiede leadership, capacità di visione, investimenti su dati, competenze e modelli organizzativi”, ha affermato durante l’evento Erminio Polito, amministratore delegato di Minsait in Italia. Lo studio di Minsait e The European House - Ambrosetti analizza il livello di adozione dell'Intelligenza Artificiale nelle aziende italiane e offre raccomandazioni per favorirne l'implementazione. È stata quindi condotta una survey che ha coinvolto circa 280 aziende italiane di grandi dimensioni (più di 250 adetti) e appartenenti a più di 15 settori produttivi, con l’obiettivo di indagare come le imprese italiane si posizionino nelle seguenti 5 aree di interesse: adozione, readiness, effetti su organizzazione e lavoro, opportunità e impatti, adeguamento normativo. La prima delle aree strategiche analizzate per comprendere come l’intelligenza artificiale stia trasformando il tessuto produttivo italiano è il livello di adozione della stessa. I dati rivelano una fotografia composita: il 38,2% delle imprese ha avviato percorsi concreti di implementazione o sperimentazione e il 25,2% prevede di adottare soluzioni di AI nel prossimo futuro. Il 21% delle aziende è, inoltre, nella fase di implementazione estesa su scala aziendale. Di contro, c’è però un 35,4% che dichiara di non aver intenzione di adottarla. Tra le imprese che stanno già utilizzando l’Ia, i casi d’uso più diffusi riguardano attività a supporto dell’It e dei processi: gestione e analisi dei dati (35,4%); supporto It tramite chatbot (23,2%); analisi predittive e automazione del back-office (entrambi al 22,2%). Più in generale, emerge come l’adozione dell’IA sia oggi prevalentemente orientata all’ottimizzazione operativa, più che alla trasformazione strategica del business. Viceversa, tra le imprese che non hanno ancora adottato soluzioni di intelligenza artificiale, emergono tre principali barriere: difficoltà organizzative (23,9%); livello ancora sperimentale delle tecnologie (21,9%) e mancanza di competenze interne (20%). Accanto a queste motivazioni, si registrano anche ostacoli legati all’assenza di chiari casi d’uso e alla gestione dei dati, mentre risultano meno rilevanti gli aspetti normativi e i costi. In merito alla capacità delle imprese italiane di cogliere concretamente le opportunità offerte dall’Ia, le imprese italiane si sentono pronte a partire sul fronte dei dati (il 43,3% ritiene di disporre di dati di qualità e in quantità sufficienti per avviare progetti di intelligenza artificiale), mostrano invece debolezze su competenze, infrastrutture, governance e casi d’uso. Circa il 70% delle aziende però non ha ancora una strategia definita per l’Ia; tra quelle che ce l’hanno, il piano è spesso gestito dall’It, con un coinvolgimento minimo del top management. I budget sono limitati: quasi la metà delle aziende investe meno del 5% del budget digitale in Ia, e nel 38% dei casi l’ammontare complessivo è inferiore a 50.000 euro annui. Impatti su organizzazione e lavoro: grazie all’IA due terzi delle aziende ha riscontrato un miglioramento dell’efficienza operativa. Una su due lamenta però la mancanza di competenze. Fra le aziende italiane prevale una visione più orientata all’efficienza che alla trasformazione. Il 64,7% delle aziende dichiara, infatti, di aver riscontrato, grazie all’introduzione dell’Ia, un miglioramento dell’efficienza operativa. Tuttavia, solo una minoranza segnala cambiamenti più profondi come l’automazione di attività ripetitive (15,2%) o la creazione di nuovi flussi di lavoro (9,1%). Anche dal punto di vista delle competenze richieste emerge una visione prevalentemente tecnica: il 58,1% degli intervistati individua nelle hard skills il fattore prioritario per governare l’intelligenza artificiale, mentre le competenze digitali di base e le soft skills seguono a distanza. Sul fronte delle soft skills, solo un’azienda su dieci le indica come prioritarie, sebbene tra queste il problem solving (58,7%) e la comunicazione (33,9%) siano le più valorizzate. Il 50% delle imprese evidenzia, inoltre, una carenza di competenze e know-how sull’intelligenza artificiale che ostacolano la capacità di evoluzione organizzativa. Una carenza che riflette una tendenza più ampia a livello Paese: meno di una persona su 2 possiede competenze digitali di base, e per raggiungere gli obiettivi del Digital Compass fissati al 2030 - che prevede l’80% della popolazione adulta alfabetizzata al digitale - sarà necessario colmare un gap di 15 milioni di cittadini. Sebbene ci troviamo in un contesto di implementazione ancora giovane, gli impatti percepiti sull’aumento della produttività sono già significativi: un terzo delle aziende segnala benefici compresi tra l’1% e il 5% (a fronte di una crescita media nazionale intorno all’1% negli ultimi 20 anni). Incrociando gli impatti sulla produttività con i fatturati delle aziende rispondenti, si tratterebbe di un aumento medio della produttività aggregata del 3,2% oggi e del 4,3% nell’arco di 18-24 mesi. Se parametrato sul fatturato italiano (pari a circa 3,6 trilioni di Euro) si tratterebbe di un aumento di 115 miliardi. Il tempo guadagnato grazie all’IA viene reinvestito soprattutto in formazione del personale, qualità dei prodotti e ricerca e sviluppo, con l’obiettivo di generare impatti più diffusi e strutturali nel medio periodo. L’ultima area indagata dalla survey riguarda l’adeguamento normativo, con particolare attenzione all’Ai Act europeo. Si tratta di un tema centrale per comprendere non solo come le aziende recepiscano il nuovo quadro regolatorio, ma anche quanto siano pronte ad allinearsi ai suoi requisiti. La percezione dell’Ai Act da parte delle aziende italiane è, in larga parte, positiva. Più di due realtà su tre vedono nella normativa europea un’opportunità per rafforzare governance e trasparenza. Solo una minoranza lo interpreta come un ostacolo o come una fonte di incertezza. Tuttavia, a fronte di questo potenziale riconosciuto, le azioni concrete per adeguarsi al nuovo quadro sono ancora limitate: oltre il 56% delle aziende dichiara di non aver ancora messo in campo alcun intervento in tal senso. Le iniziative attivate, quando presenti, sono ancora frammentate e spesso circoscritte a valutazioni preliminari o programmi di alfabetizzazione. Il principale ostacolo all’adeguamento risulta essere, ancora una volta, la formazione. Quattro aziende su dieci segnalano infatti la necessità di sviluppare competenze specifiche sul tema normativo. A seguire, emergono difficoltà legate alla mancanza di linee guida chiare (18,2%), all’adeguatezza delle infrastrutture It (17,2%) e ai costi per garantire la compliance (16,2%). Per affrontare la sfida dell’adozione e dell’impatto dell’Intelligenza Artificiale in Italia, è fondamentale una strategia nazionale che promuova un utilizzo diffuso e produttivo della tecnologia, in grado di rafforzare la competitività del Paese. Le priorità strategiche per l’Italia devono includere, secondo lo studio: stanziare risorse per sostenere una strategia nazionale per l’IA che sia chiara, supportata da adeguate risorse finanziarie e strutturali, e che favorisca la diffusione della tecnologia in tutti i settori chiave; rafforzamento dei fattori abilitanti, dalle infrastrutture digitali, alle competenze; promuovere l’Ia nelle Pa favorendo forme strutturate di collaborazione tra pubblico e privato attraverso reti, laboratori condivisi e sinergie, come leva strategica per accelerare le sviluppo e l’implementazione di soluzioni di Ia accessibile e inclusiva; fornire modelli di riferimento e casi d’uso concreti per sostenere la definizione di strategie aziendali sull’Ia. Sostenere l’adozione dell’Ia sui territori e nelle piccole e medie imprese. Per raggiungere gli obiettivi del Digital Compass (90% delle pmi con un livello base di digitalizzazione) ci mancano oltre 126.000 pmi italiane con un’intensità digitale di base. Queste priorità dovranno essere sviluppate in modo coordinato tra le istituzioni pubbliche, il mondo dell’impresa e il settore educativo, per creare un ecosistema favorevole all’adozione e all’innovazione tecnologica, in grado di elevare la competitività dell’Italia a livello globale. “L’Intelligenza Artificiale non è più una tecnologia emergente. È diventata una leva critica per la competitività delle imprese. Chi oggi guida un’organizzazione sa che l’adozione dell’Ia non è una scelta accessoria, ma una decisione strategica, destinata a ridefinire il vantaggio competitivo, il modello operativo e la cultura aziendale”. Ha dichiarato Erminio Polito, amministratore delegato di Minsait in Italia, che ha aggiunto: “i dati raccolti in questo rapporto lo confermano: l’adozione su larga scala dell’IA potrebbe generare fino al 18% del pil italiano in valore aggiunto, rendendola una leva decisiva per la competitività del sistema-Paese. Ma per liberarne appieno il potenziale occorre colmare ritardi strutturali nei principali fattori abilitanti – digitalizzazione, infrastrutture, competenze e regolazione – che oggi ne limitano la diffusione. Questo rapporto rappresenta più di una semplice analisi: è un invito esplicito alla collaborazione tra centri di ricerca, università, imprese, istituzioni e cittadini, affinché l’Intelligenza Artificiale sia una forza positiva capace di generare crescita economica e sociale sostenibile e condivisa”. “Questo studio mostra con chiarezza che l’Intelligenza Artificiale non è più una frontiera da esplorare, ma una leva da attivare, con urgenza e visione strategica. Se il 63% delle grandi aziende italiane ha già avviato percorsi di adozione o intende farlo a breve, abbiamo davanti un potenziale concreto: fino a 115 miliardi di euro di incremento di produttività sul fatturato aggregato e un effetto sistemico sull’intero tessuto industriale. Per cogliere appieno questo impatto, serve un’azione coordinata su quattro fronti: competenze, infrastrutture, governance e casi d’uso concreti. L’Ia può diventare il motore per rendere il nostro sistema economico più competitivo, inclusivo e sostenibile”, ha dichiarato Corrado Panzeri, partner di Teha Group & head of InnoTech Hub.
(Adnkronos) - Cresce la desertificazione oceanica a causa del riscaldamento globale. In poco più di vent’anni è quasi raddoppiata l’area delle regioni oceaniche già povere di nutrienti e con scarsa biodiversità, passando dal 2,4 al 4,5% dell’oceano globale. Si tratta di un fenomeno che comporta una grave carenza di nutrienti e che potrebbe avere conseguenze significative sulla salute degli oceani e sul clima globale. È questo uno dei principali risultati emersi da uno studio internazionale condotto dal Laboratorio Enea Modelli e Servizi Climatici, in collaborazione con l’Istituto di Scienze Marine Ismar-Cnr e il laboratorio cinese State Key Laboratory of Satellite Ocean Environment Dynamics (Soed), pubblicato sulla rivista scientifica ‘Geophysical Research Letters’. Lo studio si concentra, in particolare, sull’analisi dei cambiamenti del fitoplancton, l’insieme di quei microrganismi che sono alla base della catena alimentare marina (sono il cibo di zooplancton, pesci e altri organismi) e contribuiscono a mitigare i cambiamenti climatici rimuovendo la CO2 atmosferica attraverso la loro attività fotosintetica. “Questo fenomeno risulta molto evidente nell’Oceano Pacifico settentrionale dove la superficie coinvolta cresce a un ritmo di 70mila km2 l’anno. Ma la desertificazione interessa in modo crescente diverse regioni oceaniche, con una particolare vulnerabilità nelle aree tropicali e subtropicali, dove la diminuzione dei nutrienti disponibili può avere importanti impatti sulla produttività e la diversità biologica. Questo accade a causa del riscaldamento globale, che fa sì che l’acqua calda, più leggera, resti in superficie, impedendo il mescolamento con l’acqua più fredda e ricca di nutrienti che si trova in profondità. Meno mescolamento significa quindi meno ‘cibo’ che arriva alla superficie per sostenere la crescita del fitoplancton e, di conseguenza, dell’intera catena alimentare”, spiega Chiara Volta, ricercatrice Enea del Laboratorio Modelli e Servizi Climatici. Dallo studio emerge inoltre che è in diminuzione la quantità di clorofilla, un indicatore chiave della salute e della produttività del fitoplancton. In pratica, una maggiore presenza di clorofilla indica una maggiore abbondanza di fitoplancton. “Tuttavia, secondo lo studio, questo calo potrebbe non indicare una riduzione della popolazione fitoplantonica, ma un adattamento di questi organismi alle nuove condizioni di crescita imposte dal cambiamento climatico, quali ad esempio l’aumento della temperatura e la riduzione della disponibilità di nutrienti”, sottolinea la ricercatrice di Enea. Per realizzare questo studio i ricercatori hanno esaminato le serie temporali di dati satellitari di clorofilla e di fitoplancton tra il 1998 e il 2022 nei cinque principali vortici oceanici della Terra (gyres subtropicali) situati nell’Atlantico settentrionale e meridionale, nel Pacifico settentrionale e meridionale e nell’Oceano Indiano. Si tratta di sistemi di correnti caratterizzati da un movimento anticiclonico dell’acqua che si sviluppano tra l’Equatore e le zone subtropicali di alta pressione, e la cui formazione dipende da una complessa interazione tra venti, rotazione terrestre e distribuzione delle terre emerse. “Negli ultimi due decenni, in concomitanza con il riscaldamento degli oceani, molti studi satellitari hanno documentato un’espansione di questi sistemi oceanici e una conseguente riduzione di clorofilla, destando serie preoccupazioni sulle possibili implicazioni per il clima globale e la salute dei nostri oceani. Tuttavia, i nostri risultati mostrano che, nonostante la diminuzione della clorofilla osservata nella zona più povera di nutrienti dei vortici subtropicali, la biomassa fitoplantonica è rimasta sostanzialmente stabile nel tempo. Tenuto conto che, per loro natura, i dati satellitari si limitano a fornire una descrizione di ciò che avviene sulla superficie oceanica, i prossimi passi da compiere saranno quelli di studiare i cambiamenti della comunità fitoplantonica lungo la colonna d’acqua e quantificare il loro impatto sulla produttività oceanica a scala regionale e globale”, conclude Chiara Volta.